FINESTRELLE DI TEOLOGIA

  bacheca

FRA PAOLO BERTI
O.F.M. capp.
 

NIHIL OBSTAT
P. ALESSANDRO PISCAGLIA
Ministro provinciale
Bo 26-10-2000

L’esistenza di Dio: non esiste l’ateo, ma il negatore   
Considerazioni circa l’esistenza di Dio
La Trinità creatrice
L’uomo creato ad immagine di Dio
L’insinuazione del dubbio circa l’amore di Dio
Dio non rinuncia al suo disegno d’amore sull’uomo
In Cristo il dono di essere figli di Dio
I miracoli: carità e testimonianza
Gli angeli e il Verbo incarnato
Il profilo interiore di Cristo
L’ espiazione del Verbo incarnato in relazione alla Trinità
Cristo via al Padre
Cristo datore dello Spirito Santo
Cristo vittoria di Dio e vittoria dell’ uomo
Cristo modello di ogni virtù
Cristo dono della capacità di trasformare le cose cattive in cose buone
Dio ci conferma sempre nel suo amore
La conoscenza di sé
La conoscenza degli altri
La Chiesa comunità della vita nuova per rendere nuovo il mondo
Il sacrificio eucaristico
I sacramenti dell’iniziazione
Il battesimo
La comunione eucaristica
La cresima o confermazione
I sacramenti del servizio della comunione
L’ordine sacro
Il matrimonio
I sacramenti medicinali
La penitenza
L’unzione degli infermi
La preghiera in Cristo
Conoscere e amare Maria
L’escatologia
Il paradiso
Il purgatorio
L’inferno
L’apoteosi del ritorno del Signore


Questo opuscoletto è stato scritto per fornire una base per le predicazioni dei frati Cappuccini. 
L’esistenza di Dio: non esiste l’ateo, ma il negatore
(Sap 13,1s): “Dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere…Perché se tanto poterono sapere da scrutare l’universo, come mai non ne hanno trovato più presto il padrone?”.
(Rom 1,20): “Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa”.  

Considerazioni circa l’esistenza di Dio
Se in una cosa si trova l’ordine, quella cosa è indubbiamente finalizzata ad uno scopo: un edificio, un orologio, un computer, un aereo, una macchina fotografica; considerando cose fatte dall’uomo. Considerando cose della natura: un orecchio, un occhio, un animale. Un baco, ad esempio, prepara il suo bozzolo, l’uccello il suo nido, ecc. Tutto coopera alla funzione, che non è il fatto antecedente, ma il fatto finale a cui tutto è predisposto. Dunque la funzione non è l’autrice dell’occhio, della macchina fotografica, ma è ciò che ha costituito l’occhio, la macchina fotografica, la causa intelligente. L’intelligenza non può essere attribuita alla macchina, la quale possiede la funzione che riflette l’intelligenza dell’inventore.
Nessuno può invocare l’azione del caso nella formazione di realtà ordinate. Nessuno, ad esempio, che sia un minimo ragionevole, può pensare che, dati tutti i pezzi per costruire un aeroplano, questi hanno una qualche probabilità di formare l’aeroplano se sono risucchiati da una tromba d’aria e rigirati insieme.
Le cose prodotte dal caso hanno una probabilità di prodursi in ragione inversa alla loro complessità. Le lettere della parola cuore possono combinarsi in 120 modi diversi, ma già la parola cordialmente presenta 479.160.000 modi diversi. Si pensi allora ai milioni e milioni di atomi e molecole in una sola cellula.  

L’uomo ha prodotto degli involucri su gocce d’acqua, ha sintetizzato proteine, sequenze di DNA, ma le operazioni sono avvenute per singole operazioni successive: una proteina è stata fatta attaccando, nell’ambito di un solvente da cambiare, un pezzetto molecolare, uno dopo l’altro. Molti uomini, con molte attrezzature, in un laboratorio possono fare contemporaneamente molti prodotti, ma dopo devono farne l’assemblaggio, e questo non può essere senza arte, cioè senza un “cantiere”. Ora giunti alla produzione di elementi molecolari bisogna assemblarla una cellula, e per questo si richiederebbe una molteplicità di operazioni - in azione contemporanea sul punto – a cui l’operare dell’uomo non può accedere: la cellula non è un edificio, un computer, ma un’unità vitale capace di riprodursi, di muoversi anche (vedi l’ameba), di nutrirsi, di ricambiare il suo materiale senza perdere la sua identità, è in altre parole, un’unità sostanziale.  

Tutti sanno come in ogni uomo vi sia il desiderio della felicità e che questa felicità gli viene data dal conseguimento di qualcosa. Questo desiderio è universale ed è la ragione profonda dell’agire dell’uomo. Si noti che anche chi si suicida pensa di avere in quell’atto malsano un vantaggio.
Il desiderio di felicità cerca sempre l’inconsumabile.
L’uomo constata che le sue gioie sono consumabili e vorrebbe la gioia inconsumabile, ma questa gli può venire solo da colui che è l’inconsumabile, perché infinito, cioè Dio.  

Ogni uomo sa che è necessario fare il bene e fuggire il male. Questo fatto viene prima di ogni legge positiva ed è costante in ogni uomo di ogni luogo e tempo. In particolare è ciò per cui gli uomini possono dichiarare che è ingiusta una determinata legge positiva. Potrà esservi variazione nell’intendere ciò che è bene e ciò che è male, ma esiste presso tutti il grande principio del “non fare agli altri ciò che non vorresti che gli altri facessero a te”, che, se fosse considerato con rigore, porterebbe ad una profonda comprensione di ciò che è bene e di ciò che è male.
Non solo a me dispiace di essere derubato, ma anche agli altri; non solo a me piace di essere perdonato, ma anche agli altri; non solo a me piace di essere stimato, ma anche agli altri; ecc. Ora tale legge di fuggire il male e fare il bene ha un legislatore, che è colui che ha creato il cuore dell’uomo.  

La legge morale evidentemente deve avere premio o punizione.
Considerando le sanzioni umane si vede che molto spesso c’è difetto: o perché il delinquente non viene individuato o perché le cose vengono svisate in sede giudiziaria. Anche le sanzioni naturali, quelle che le cose danno come risposta di dolore a chi agisce male, sono carenti, perché spesso chi agisce male sta bene (relativamente alla salute e al denaro) e chi agisce bene sta male. Ora, se non c’è una sentenza sul male, giusta, certa, infallibile, tutto diventa senza speranza, non è possibile altro che la disperazione e l’arroganza. Dunque, a meno di precipitare nel vuoto morale, bisogna dire che c’è un Giudice Supremo: Dio.  
La maggioranza degli uomini, compresi tanti scienziati, ammette l’esistenza di Dio (in Europa chi si dichiara ateo è il 25%). Ora, in una questione di tanta importanza non è possibile che gli uomini si ingannino ad oltranza, anche se poi si ingannano con il politeismo, l’idolatria, il panteismo.
Va detto che si continua ad ammettere l’esistenza di Dio anche quando l’uomo è nel benessere. È stato smentito l’assunto che la “religione è l’oppio dei popoli”. Inoltre va notato che nei paesi dove l’ateismo era imposto, l’idea di un Supremo la si è ritrovata, presso persone che mai avevano sentito parlare di Dio e neppure pronunciare la parola “Dio”.  

Tutti constatano che un effetto è prodotto da una causa: un sasso in un fiume è mosso dalla corrente; un pezzo di ferro può acquistare una temperatura, ma non da se stesso, bensì attraverso una fiamma, una intensa corrente elettrica, l’irraggiamento solare; la dinamo non può azionarsi da se stessa, ma per mezzo di una turbina; la turbina ruota per mezzo dell’acqua in caduta; l’acqua in caduta per mezzo di un dislivello e quindi della forza di gravità; l’acqua giunge al bacino per mezzo della pioggia; la pioggia dalle nubi; le nubi dall’evaporazione; l’evaporazione dal sole; il sole dalla materia caotica in urto e in esplosione; la materia dell’universo e le sue leggi da una Causa non causata, non essendo possibile andare all’infinito con la serie delle cause, perché allora si dovrebbe concludere che nessun effetto ha una causa, perdendosi tutto in una serie senza fine e così si avrebbe che nulla diviene, mentre il “divenire” insieme “all’essere”, è da tutti constatabile.
Non è possibile che l’universo abbia una causa iniziale che coincida con l’effetto finale, poiché l’effetto finale, che è la “morte dell’universo”, usando il linguaggio dei fisici, non può essere vinto dalla “morte dell’universo”.
Tutti notano come gli esseri cosmici non possono operare senza il concorso degli altri. La generazione di un animale non dipende solo dall’animale generante, ma da una somma di condizioni, di influenza: il calore solare, l’ossigeno dell’aria, l’acqua, gli alimenti, la radiazione solare. L’insieme delle cause appare ordinata e ogni causa, di anello in anello, conduce ad una Causa incausata.  

Gli esseri contingenti, che noi vediamo esistere, non hanno in se stessi la ragione della propria esistenza. Se avessero in sé la ragione della propria esistenza non potrebbero non esistere. Ma non si può procedere all’infinito nella serie degli esseri contingenti, che non hanno in se stessi la ragione della propria esistenza, dunque si deve ammettere un Essere necessario, che ha in se stesso la ragione della propria esistenza.  

Dio essendo il Primo Ente, la Prima Causa, non procede da nessuna causa, egli semplicemente “è”. Il nome biblico “Jahvéh” significa (Es 3,14): “Io sono colui che sono”.  

Dio è infinito. Infinita si dice una cosa perché non è finita (limitata).
Dio è per essenza lo stesso essere sussistente. Egli non dipende da nulla essendo il Primo Ente, la Prima Causa. Non procedendo da alcuna causa, non è finito come tutto ciò che è soggetto ad una causa.
Dio è unico. Ciò che è assolutamente infinito nella perfezione non può essere molteplice, ma uno solo. Poiché se gli infiniti fossero più, dovrebbero differire tra di loro, e così non sarebbero infiniti, perché in ciascuno vi sarebbe qualche cosa che non conviene all’altro. Ma Dio è assolutamente infinito.
Dio è distinto da tutte le cose proprio in ragione della sua infinità.  

Ecco come Aristotele contemplava “il primo motore immobile”: “Immobile nella sua attivirtà, questo essere non è soggetto ad alcuna sorta di mutazione…Tale è il principio da cui dipende il cielo e la natura. La sua felicità assomiglia a quelle gioie supreme che non possiamo gustare che per un istante, ma egli le possiede eternamente. La sua felicità è il suo atto…è l’atto dell’intelligenza suprema, il pensiero puro che pensa se stesso…Egli ha la vita. Poiché l’atto dell’intelligenza è una vita. Ora, Dio è questo stesso atto allo stato puro. Esso è dunque la sua propria vita: questo atto sussiste in sé: tale è la sua vita sovrana ed eterna. Ecco perché si dice che egli è un eterno e perfetto vivente: perché la vita che dura eternamente esiste in Dio, ciò essendo egli stesso: la Vita medesima” (Metaphysika).  

Questo è il Dio dei filosofi, ma quando l’uomo entra in contatto orante con lui lo chiama Padre; Padre nel senso che gli viene attribuita un’autorità provvidente. Gesù ci rivela che Dio è Padre in un senso inaudito: non lo è soltanto in quanto Creatore provvido per le sue creature, ma perché egli è eternamente Padre in relazione al suo Figlio unigenito, il quale a sua volta non è Figlio se non in relazione al Padre. E il Padre ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio (Gv 3,16), nel disegno che il Figlio conduca a lui, quali figli adottivi, gli uomini, tutti invitati a farsi conformi al Figlio incarnatosi.  

La Trinità creatrice
Tutta la Trinità è creatrice: ogni Persona è stata attiva con la sua specifica identità nell’atto creatore, che è comune alle tre Persone in maniera rigorosa in ragione dell’unica essenza: l’essere partecipato presuppone il Sussistente per se stesso e le tre Persone sussistono rigorosamente nell’unica essenza.
L’opera della creazione la si attribuisce al Padre poiché ha da se stesso la potenza creatrice, il Figlio e lo Spirito Santo, infatti, la ricevono eternamente da lui, senza incominciamento, tutta intera.
L’opera della creazione procede dal Padre, ma è avvenuta per mezzo del Figlio, poiché è nel Verbo-Figlio che il Padre ha visto l’idea di tutte le cose create (Gv 1,3): “Tutto è stato creato per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste”; (Col 1,16): “Per mezzo di lui sono state create tutte le cose”.
Lo Spirito Santo, che scruta le profondità (1 Cor 2,10) del Padre e del Verbo-Figlio, è l’Amore-Persona che procede dai due ed è tramite tra i due; è colui che ha mosso il Padre a compiere l’atto della creazione. Dunque, il Padre per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo, ha creato tutte le cose.  

L’uomo creato ad immagine di Dio
La vita si trova certamente su altri pianeti, ciò torna perfettamente a gloria di Dio creatore. Prima della creazione dell’uomo la vita era già presente sulla terra ed essa era contemplata dal Creatore, che, appunto, l’ha disseminata nei pianeti dove essa è possibile, in varie forme.
Circa la presenza di esseri razionali su altri pianeti va detto che ricerche accurate e ben finanziate fino ad oggi - 30 anni - non hanno trovato la prova di alcuna emissione elettromagnetica che rifletta un qualche codice e quindi la presenza di esseri razionali. Alla luce di questo si potrebbe dire che, nel raggio delle esplorazioni fatte, la nostra civiltà è la più avanzata. Quindi la ricerca non ha arrestato l’ipotesi di altri esseri razionali su altri pianeti.
Una risposta all’interminabile ipotesi la si può tentare partendo dalla centralità di Cristo Re dell’Universo.
Partendo dall’ipotesi di altri esseri razionali della nostra stessa forma umana su altri pianeti e dalla probabilità che altre “ipotetiche unità planetarie di esseri razionali” abbiano peccato (non è infatti probabile che abbiamo peccato solo noi), si potrebbe fare l’ipotesi di una pluralità di incarnazioni e quindi di redenzioni, che di per sé non sarebbe impossibile in quanto il Verbo non ha diminuito per l’Incarnazione il suo potere infinito, ma subito si dovrebbe respingerla di fronte alla centralità universale del Verbo incarnato, cioè del Cristo nato da Maria. Si dovrebbe infatti concludere che in Cristo non sarebbero ricapitolate tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra, come afferma la Rivelazione (Ef 1,10; 1,21).
A questo si deve aggiungere che, se gli ipotetici esseri razionali di altri pianeti non fossero di forma corporea umana, non potrebbe l’Incarnazione del Verbo essere un dono di comunione con loro secondo la natura assunta.
La conclusione “dell’esplorazione teologica” è che non vi sono porte aperte per l’ipotesi di altri esseri razionali su altri pianeti.
Cristo ci ha nascosto qualcosa in merito? Non lo si può dire: lui stesso è la parola-risposta.  

La creazione non è una realtà muta, brulla, deserta, informe (Is 45,18): “Dio non ha creato la terra come un’orrida regione, ma perché fosse abitata”. La creazione non è soltanto luogo di vita, è messaggio dell’amore di Dio all’uomo; in questo senso è salvifica.
Nel libro della Genesi si hanno due racconti sulla creazione dell’uomo. Nel primo si hanno queste parole: ”Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini…”. Il plurale usato nei confronti di Dio vuole presentare l’esistenza in Dio di una pienezza di vita, di una ineffabile densità di vita. Ciò è espresso nella Bibbia anche attraverso il plurale del nome comune dato a Dio “Elohim”.  

Maschio e femmina li creò”, e dunque la relazione uomo-donna rientra nell’essere ad immagine e somiglianza di Dio.  

I padri della Chiesa hanno visto nel plurale “facciamo” una velata presentazione della Trinità, e questa loro lettura non va sottovalutata: l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio non solo perché è capace di comunione con lui e di creatività (Cf. CCC 7;31;44), ma anche perché possiede un’innata vocazione alla vita di relazione interpersonale.
Nel secondo racconto la vocazione alla vita di relazione interpersonale dell’uomo viene presentata esplicitamente: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio dare un aiuto che gli sia simile”. L’uomo è già in intima comunione con Dio, ma gli manca la possibilità di vivere a livello umano il suo essere fatto ad immagine di Dio. L’aiuto all’uomo non consiste nel disbrigo delle faccende domestiche, bensì nella gioia di vedere espresso quello che Dio gli ha posto nel cuore, nella gioia di essere arricchito dalla vita di relazione.  

L’essere fatto ad immagine di Dio non solo indica la realtà spirituale dell’uomo, ma anche la sua corporeità (Cf. CCC 364).  

(CCC 365): “L’unità dell’anima e del corpo è così profonda che si deve considerare l’anima come la “forma” del corpo; ciò significa che grazie all’anima spirituale il corpo composto di materia è un corpo umano vivente”.
Nel corpo è presente l’anima razionale, ma poiché il corpo vive per la presenza dell’anima si può giungere a dire che è l’anima che contiene il corpo. L’anima non tocca il corpo in termini quantitativi - l’anima non è materia -, ma lo tocca con contatto di virtù, e lo informa.
L’anima non muove le membra del corpo, ma è la condizione necessaria perché il corpo umano sia quello che è, cioè un corpo umano vivente. Senza l’anima l’uomo è cadavere. Certo poi la volontà muove le membra del corpo attraverso le risorse motorie del corpo stesso.
L’anima informa il corpo fin tanto che esso è biologicamente attivo: quando questa condizione cessa (malattia con esito infausto, incidente mortale, uccisione) l’anima si separa dal corpo e si ha la morte.
L’anima non preesiste al corpo, ma è creata immediatamente da Dio, quando l’uomo e la donna mettono in essere l’embrione.
Nell’uomo vi è una sola anima, la quale ha le potenze vegetative, sensitive, l’intelletto e la volontà.
L’anima si trova in tutto il corpo. L’anima essendo la “forma” del corpo è tutta in tutto il corpo. Le sue potenze vegetative e sensitive si applicano nelle varie realtà dell’essere corporeo. Le potenze vegetative e sensitive si attuano in concomitanza con il corpo, non indipendentemente dal corpo (Es. virtù visiva, uditiva, ecc.)
(CCC 365): “Lo spirito e la materia, nell’uomo, non sono due nature congiunte, ma la loro unione forma un’unica natura”. Le operazioni spirituali dell’anima, benché dipendano – ovviamente – dalla percezione dei sensi, procedono dall’anima sola. La dipendenza delle operazioni spirituali dalla percezione dei sensi non è così intrinseca, ma puramente estrinseca: l’anima razionale infatti conosce le cose nella loro natura universale, i sensi invece no. Ora, l’operazione di cogliere le cose nella loro natura universale deriva dall’anima, che è una sostanza spirituale, e quindi incorruttibile. Il fatto che, nella vita presente, il nostro intelletto non possa conoscere direttamente le sostanze spirituali non fornisce alcun argomento ai negatori dell’esistenza dell’anima: l’esistenza dell’anima è dimostrabile razionalmente.
La Scrittura, con chiarezza inequivocabile, presenta l’esistenza dell’anima.
Va detto che l’idea della reincarnazione delle anime è solo un fatto religioso connesso ad una concezione di purificazione (Karma), ma non ha alcun fondamento in ciò che l’uomo percepisce di se stesso: l’uomo non è una individualità dentro un corpo sostituibile, ma è una unità individua costituita di anima e corpo.
La Bibbia afferma una sola esistenza (Eb 9,27): “Gli uomini muoiono una sola volta”.  

Dio creatore ha chiamato l’uomo, attraverso la corporeità, a collaborare alla formazione di nuovi esseri umani. Dio ha creato gli angeli direttamente, uno per uno; per l’uomo, invece, la realtà è diversa. Nello stato di giustizia originale il coniugio era esente dalla concupiscenza, per cui Dio non era espropriato in nulla della sua gioia di essere il creatore dell’uomo. Promotore, con il suo Spirito, del coniugio, vedeva la generazione in una purissima e amorosa sottomissione a lui Creatore e dava alla prole, fin dal primo istante, la grazia.  

Posta la rivelazione della realtà trinitaria, si può cercare nella famiglia il riflesso di tale realtà.
L’uomo, nella trasmissione della vita, pone la sua iniziativa genetica in connessione diretta con il coniugio, e questo ha rilevanza; la donna, parimenti, ha un’azione esclusiva nella gestazione, e quindi un conseguente rapporto specifico coi figli. Stando ciò l’uomo ama i figli nella compagna, la quale “gli dà dei figli”. L’uomo durante la gestazione assume con più evidenza un ruolo di protezione, di attenzione, verso la compagna. Tale ruolo alla nascita del figlio diventa “patria”, cioè azione amorosa di capofamiglia (La famiglia è una piccola società e come tale deve essere ordinata: il capofamiglia non è però il capufficio, il caporeparto, ecc.). Tale “patria” discende dal Padre (Ef 3,15) e quindi è un riflesso della “patria” di lui, ed è iscritta nell’essere dell’uomo e anche della donna, nel senso che essa è richiesta dalla donna. La “matria” della donna nei confronti dei figli (che la “patria” non può mai mettere in difficoltà) si esercita nell’intesa con la “patria”, avendo la caratteristica di una amorevolezza di tramite tra i figli e il padre e viceversa. In tal modo presenta in sé un riflesso analogico dell’azione intratrinitaria dello Spirito Santo.
I figli sono futuro, oltre che presente. Analogamente al Padre, che ha visto nel Verbo l’esemplarità di tutte le cose create, i genitori “vedono” per mezzo dei figli il futuro, che riguarda pure essi stessi. In tal senso i figli costituiscono nei confronti dei genitori un riflesso analogico del Verbo-Figlio nella sua relazione con il Padre.  

L’idea che l’uomo debba fissarsi in Dio dimenticando tutto, trascendendo tutto quello che è proprio del suo essere umano, è distorsione dell’uomo e falso concetto di Dio, come è distorsione dell’uomo e falso concetto di Dio fissarsi sull’orizzonte umano dimenticando Dio. La verità è che l’uomo deve vivere nella comunione con Dio Amore. Dio ha creato l’uomo per una vita di comunione con lui, e fuori di questa altissima proposta di comunione l’uomo si sciupa e introduce il disordine morale, il dolore nelle sue relazioni interpersonali.  

(Col 1,16): “Tutte le cose sono state create (…) in vista di lui”; (Rm 5,14): “Adamo è figura di colui che doveva venire”. Questi testi presentano, pur riferendosi all’incarnazione avvenuta, come il Verbo eterno si sarebbe incarnato anche in assenza della colpa.
La “patria” di Adamo è stata l’inizio di una catena ininterrotta di “patrie”, ma tutto era subordinato nel disegno di Dio alla fraternità dei figli di Dio, la cui fonte è il Verbo incarnato, il Pensiero-Persona del Padre, che diventa nell’incarnazione Parola all’uomo.
Adamo ed Eva, capaci di Dio, nel piano primitivo, in assenza del peccato, avevano la gratia Dei, ma questa aveva come compimento il Verbo incarnato, vincolo pieno della fraternitas dei figli di Dio. Infatti senza il Verbo incarnato la “patria” di Adamo, che avviene nella carne, sarebbe stata un velo resistente al pieno stabilirsi della fraternitas dei figli di Dio.
Il Padre, volendo l’uomo, ha così voluto pure l’incarnazione del Verbo, che, in assenza del peccato, sarebbe stata glorificazione della natura umana, sublime testimonianza dell’amore di Dio all’uomo, compimento di ogni azione della “gratia Dei”, apoteosi gloriosa di tutte le relazioni interpersonali degli uomini, nella forza della potenza relazionale della “gratia Cristi”, della sovranità del celeste Adamo, capo di tutti i figli di Dio.
Tutto ciò risplende immensamente di più nel fatto che l’incarnazione è avvenuta in concomitanza della liberazione dell’uomo dal peccato e dalla morte, e questo mediante il sacrificio della croce, così ora la grazia è in tutto gratia Cristi.  

Dio da sempre ha conosciuto che l’uomo liberamente avrebbe peccato e così da tutta l’eternità ci ha visti nell’incarnazione redentiva del Verbo. Noi siamo stati creati (ricreati) in Cristo Gesù (Ef 2,10). Cristo, morto e risorto, è così il modello della ricreazione dell’uomo. La vocazione alla vita di relazione interpersonale dell’uomo viene così riespressa in Cristo.
Il Padre, che ha creato tutte le cose per mezzo del Verbo-Figlio, nello Spirito Santo, ha ricreato tutte le cose per mezzo del Cristo, nell’azione dello Spirito Santo.
Lo Spirito Santo, che ha mosso il Padre all’opera dell’incarnazione del Figlio attuatasi nel grembo verginale di Maria e che ha condotto il Cristo sulla croce, in Cristo, espiatore di tutte le colpe del genere umano, riconduce l’uomo e tutta l’azione dell’uomo sugli altri e sulla creazione, al Padre.

L’insinuazione del dubbio circa l’amore di Dio
La tentazione si avvale, come fatto primo, dell’insinuazione del dubbio circa la vicinanza, l’aiuto, l’amore di Dio. Entrato il dubbio, il soggetto considera la vita alla luce tenebrosa del peccato, con sempre maggiore consapevolezza fino ad eleggere la menzogna a verità. Ma la tentazione in chi è intimamente unito a Cristo non fa breccia Cristo è la totale smentita, in grado infinito, della menzogna che Dio sia lontano, indifferente, avaro. La tentazione in chi è in Cristo non fa altro che rafforzare l’unione con Cristo, perché gli è palese la menzogna della tentazione.
Il peccato si presenta sempre pieno di promesse di grandezza, di felicità, e addirittura di giustizia nei confronti di Dio, presentato come esoso, oppressore. (Gn 3,5): “Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio”.
Il peccato segna una rottura con Dio e con il suo disegno. Il peccato persegue un piano di vita che è in opposizione a quello di Dio. Il peccato non ha alcuna ragione di essere, e l’uomo ha la possibilità, nell’aiuto della grazia, di superare vittoriosamente la tentazione.  

Se l’uomo si separa da Dio e vuole attuare un dominio sulle cose indipendentemente da lui, non fa che distruggere la terra (Cf. Ap 11,18).
(CCC 400): “L’armonia nella quale essi (Adamo ed Eva) erano posti, grazie alla giustizia originale, è distrutta; la padronanza delle facoltà spirituali dell’anima sul corpo è infranta: l’unione dell’uomo e della donna è sottoposta a tensioni; i loro rapporti saranno segnati dalla concupiscenza e dalla tendenza all’asservimento. L’armonia con la creazione è spezzata: la creazione visibile è diventata aliena e ostile all’uomo. A causa dell’uomo, la creazione è “sottomessa alla caducità”. Infine, la conseguenza esplicitamente annunziata nell’ipotesi della disobbedienza si realizzerà: l’uomo tornerà alla polvere, quella polvere dalla quale è stato tratto. La morte entra nella storia dell’umanità”.  

L’uomo dopo il peccato originale si trova ad essere inclinato, non con inarrestabilità di risultato, poiché rimane pur sempre libero e orientato a Dio, a dubitare della vicinanza di Dio sotto la spinta di vicende tristi. Lo si vede chiaramente nella storia del popolo d’Israele durante il viaggio nel deserto quando parve prevalere questo dubbio (Es 17,7): “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”. Tutta la purificazione è rivolta sempre ad avere una fede incrollabile non solo nell’esistenza dell’unico Dio, ma anche nella sua bontà e giustizia, in qualsiasi circostanza, perché egli è bontà e giustizia. La prova data ad Abramo circa il sacrificio del figlio Isacco consiste proprio in questo. La prova subita da Giobbe è sullo stesso punto. Prima di peccare, cioè di scegliere la prospettiva del senso, dell’egoismo, del vizio, l’uomo ha sempre un moto di disconoscimento della bontà e giustizia di Dio. Ma Dio, che ama per primo (1Gv 4,10), fornisce sempre all’uomo gli elementi affinché non dubiti del suo amore. Il salmo (125,3) presenta questo: “Non lascerà pesare lo scettro degli empi sul possesso dei giusti, perché i giusti non stendano le mani a compiere il male”.
L’amore di Dio per l’uomo si manifesta nel non rinunciare mai a lui; si manifesta nella sua volontà di perdonare e nella prontezza nel farlo; si manifesta nel soccorrerlo, nell’aiutarlo e allietarlo con la sua benedizione. Nessuno è escluso dalla misericordia di Dio (Cf. Mt 5,45).
Anche i castighi sono atto di misericordia, sono correzioni (Cf. 1Cor 12,30; Eb 12,7): Il castigo massimo si ha quando Dio, rifiutato fino alla negazione totale, è costretto a lasciare che gli uomini rimangano preda del proprio consiglio (Cf. Ps 81,13); allora si hanno i tremendi autocastighi.  

Il peccato ferisce l’uomo anche quanto al suo essere corporeo. Nel volgere dei millenni dei millenni, gesti di criminalità spinti fino all’efferatezza con lesioni profondissime nella coscienza e nella psiche, lussurie inconcepibili e da incubo, costrizioni a condizioni di vita subumane, assunzioni di droghe, hanno intaccato la perfezione originale data da Dio alla corporeità dell’uomo. Così sul piano delle risorse fisiche, della bellezza, si notano spesso dei difetti: poca salute in uno, non bellezza in un altro, debolezza nervosa in un altro, basso quoziente di intelligenza in un altro ancora. Ma Dio riserva a coloro che lo amano le ricchezze della santità e infine la gloriosa risurrezione, dove ogni difetto scomparirà: in Cristo, infatti, ogni male viene ad essere per la gloria di Dio (Cf. Gv 11,4).  

Il peccato introduce la precarietà nei rapporti interpersonali, i quali vengono a maturare coalizioni di odio in lotta con chi segue Dio, senza però poter prevalere. Un esempio lo si vede nell’accerchiamento subito da Noè dalle genti unite in un progetto di oscuramento del bene; il diluvio punitivo sarà l’evento salvifico.  

La salvezza ricevuta da Noè segna la storia dell’uomo poiché vede Dio impegnarsi con un’alleanza (Gn 9,8).
Si legge (CCC 56): “L’alleanza con Noè dopo il diluvio esprime il principio dell’economia divina verso le “nazioni”, ossia gli uomini riuniti in gruppi, “ ciascuno secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle loro nazioni (Gn 10,5)”.
Le etnie, le nazioni, unite contro il bene, si scavano divisioni. La ragione del dividersi degli uomini sta tutta nella volontà di cercare l’unità, la grandezza, senza Dio, elevandosi, illusoriamente, ai livelli di Dio. E’ questo il senso della narrazione della torre di Babele.
La torre di Babele è una chiave di lettura permanente (Cf. CCC 57). Anche ai tempi nostri costruiamo torri per formare l’unità, ma ne deriva solo la divisione. E ancora si costruisce la torre fino al cielo, torre che le grandi ambizioni spaziali visualizzano come non mai. E la Babele diventa più acuta a dispetto di tutte le possibilità dell’informazione telematica, perché viene radicalmente compromesso il significato stesso della vita.  

Il fatto religioso è un fatto fondante la vita sociale perché introduce nei comportamenti umani un codice morale che è presentato come risalente alla divinità, un codice sul quale si articola il giudizio della comunità e della divinità. Le varie religioni si presentano come risposte agli interrogativi fondamentali del cuore dell’uomo. Vero è che la difesa della propria religione e la stessa volontà di estenderla hanno portato alle guerre di religione, ma il fatto religioso non è portatore di per sé di guerra, sì che, eliminate le religioni, si abbia la pace, anzi al contrario si avrebbe un’anarchia sociale senza precedenti.  

Dio non rinuncia al suo disegno d’amore sull’uomo
(CCC 59): “Per riunire tutta l’umanità dispersa, Dio scelse Abram chiamandolo fuori dal suo paese, dalla sua parentela, dalla casa di suo padre, per fare di lui Abraham, vale a dire “il padre di una moltitudine di popoli” (Gn 17,5): “In te saranno benedette tutte le nazioni della terra " (Gn 12,3 v.LXXX)”. (CCC 62): “Dopo i patriarchi, Dio forma Israele quale suo popolo, salvandolo dalla schiavitù d’Egitto”.
Israele, in mezzo alle deformazioni prodotte nel mondo dal peccato (Cf. CCC 761), è stato la preparazione e il segno della riunione futura di tutte le nazioni (Cf. Is 2,2-5; Mi 4,1-4; Cf. CCC 762) nella missione redentrice di Cristo, fondatore e capo della Chiesa (LG 9,308). Egli non ha abolito le nazioni, ma ha fatto gli uomini uni in lui. (LG 9,210): “Israele, secondo la carne, peregrinante nel deserto, viene chiamato Chiesa di Dio" (2Esd 13,1; Cf. Nm 20,4; Dt 23,1).
Il popolo d’Israele, dopo aver ricevuto la legge al monte Sinai, venne ad avere una sua terra. Esodo, Sinai, ingresso nella Terra Promessa sono un unico quadro.
Attraverso i profeti Dio forma il suo popolo alla speranza della salvezza, nell’attesa di un’Alleanza nuova ed eterna, destinata a tutti gli uomini e che sarà scritta nei cuori. Israele è stato costituito nell’attesa di un Principe della pace, di uno a cui è dovuta l’obbedienza tra i popoli, di uno che dominerà da mare a mare e il cui regno non avrà mai fine.
La conquista a Dio di tutta l’umanità non avverrà affatto per mezzo della guerra. L’errore di Israele, che portò al rifiuto di Gesù, fu quello di pensare alla guerra come mezzo per affermare l’unico Dio, in definitiva nella prospettiva di un suo trionfo etnico. Gesù di fronte alla prospettiva distorta di Israele presentò come lui fosse il senso di tutto. La radice etnica di Israele (Abramo) e quella legislativa (Mosè) guardavano a lui (Gv 5,45-46; Gv 8,56). L’errore di Israele fu quello di non volere intendere i profeti, che presentavano chiaramente il Messia come principe della pace ed istitutore di un regno eterno, che non poteva avere la provvisorietà ineluttabile di quelli della terra. Essi pensarono ad un Messia dai connotati terreni e bellici, ponendo i dati della conquista della terra promessa –fatto del tutto circoscritto ad un territorio- nella prospettiva di un impero mondiale.
Cristo disse loro, e a tutti gli uomini, che la conquista a Dio della terra non può avvenire se non nell’amore, nella pace, nel sacrificio di sé, nel rispetto degli altri.  

Gesù precisa in molte parabole che cos’è il Regno dei cieli, che è (Lc 17,21) “in mezzo a noi”.
Il Regno predicato da Cristo è Regno dei cieli, cioè non nasce dalla terra, ma viene da Dio. Il Regno dei cieli è istituito da Cristo, fa capo a Cristo, si realizza nell’essere in Cristo; e poiché Cristo è la via che conduce al Padre ed è la ragione del dono dello Spirito Santo, ne viene che il Regno dei cieli è l’intima partecipazione, per Cristo, con Cristo e in Cristo, alla vita trinitaria, nella realtà della Chiesa.
Il Regno dei cieli è presente in germe e in crescita nella Chiesa, che è chiamata (Mt 13,33) a lievitare di esso tutte le realtà del mondo.
La predicazione del Regno è predicazione della “grazia del Signore Gesù Cristo, dell’amore del Padre e della comunione dello Spirito Santo” (dalla liturgia eucaristica).  

La predicazione del Regno è annuncio di un dono gratuito di Dio, che non può essere rifiutato se non per mezzo di una profonda deformazione del cuore (Lc 2,34;Mt 12,30;Mt 13,12;Mc 16,16;Gv 8,24;Rm 10,9; 2Tess 2,10). La predicazione deve avvisare delle conseguenze del rifiuto di Dio: questo non è terrorizzare nessuno, non è fare violenza alla libertà di nessuno, ma è amore che tutto dice.  

In Cristo il dono di essere figli di Dio
Le difficoltà di Israele nell’accogliere Cristo possono essere ricondotte al rifiuto di pensare che Dio poteva veramente venire tra gli uomini, essere l’Emmanuele, per manifestarsi come carità al servizio della elevazione a lui degli uomini e della concordia tra di loro. C’erano testi che presentavano il Messia come una figura superiore (Ps 2,7-9): ldquo;Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato”; (Ps 110,1): “Disse il Signore al mio Signore”; (Dn 7, 13-14): “Uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere gloria e regno”; (Is 7,14): “Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”; (Is 9,5): “Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue palle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace”.
Le scritture in nulla ostacolavano l’accoglienza della rivelazione del mistero trinitario e quindi l’identità di Figlio di Dio per Gesù. Ciò che l’ostacolava era il fatto che pensare a Dio amore significava avere amore, e quindi comunione che non fosse solo fatto di razza, di sangue.
Il popolo di Israele era stato formato a partire da Abramo e non doveva avere come sua identità la sola componente etnica, anzi questa pienamente doveva essere sottomessa all’identità di essere il popolo di Dio.
La circoncisione prescritta da Dio ad Abramo (Gn 17,10) stabiliva un segno di alleanza rivolto a creare consapevolezza costante che l’autore primo del popolo era Dio, e che le prospettive salvifiche non partivano dall’essere della razza di Abramo, ma dall’essere nella linea della fede di Abramo. La circoncisione era il riconoscimento del primato di Dio nella procreazione, e quindi in senso ampio era un segno di sottomissione a Dio. Dirsi “creatore” di una discendenza era un gesto che riportava al concetto generazionale dell’avo-dio, proprio del paganesimo. E fu proprio nell’illusione di diventare avo-dio, a ben considerare, che Adamo consumò il suo peccato di disobbedienza. Il peccato originale fu rigorosamente di disobbedienza, ma il frutto proibito fu la gestione indipendente da Dio della sessualità.
La circoncisione non toglieva la colpa originale, ma favoriva la coscienza che il popolo di Israele era stato creato da Dio, perché Dio è il creatore.
Il legame del sangue doveva dunque essere sottomesso a Dio, solo in tal modo l’appartenenza al popolo di Dio era salvifica: si era figli di Dio nell’osservanza della legge (Rm 2,25ss), in attesa della pienezza messianica (Is 32,15; Ez 36,27; 39,29; Gl 3,1).  

L’essere popolo di Dio significa vivere ciò che questo implicava: l’osservanza della legge e l’attesa del Messia. Molti in Israele, al tempo di Gesù, avevano oscurato che si era discendenza di Abramo, nella prospettiva della salvezza, solo per la fede in Dio, autore delle alleanze. Molti avevano puntato sul fatto etnico, razziale, come base della salvezza. Giovanni Battista a costoro diceva (Mt 3,8): “E non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre”. Gesù rispondeva, a coloro che gli obiettavano (Gv 8,33) “Noi siamo discendenza di Abramo”; (Gv 8,39): “Se siete figli di Abramo fate le opere di Abramo”. Giovanni nel suo Vangelo dichiara la presenza di figli di Dio anche fuori dei confini di Israele (11,52): “Profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (cf. LG 16,326; AG 7,1104).
Anche l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani afferma la presenza di giusti tra i pagani (2, 14-15): “Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi pur non avendo la legge, sono legge a se stessi”; (2, 26-27) “Se dunque chi non è circonciso osserva le prescrizioni della legge, la sua non circoncisione non gli verrà forse contata come circoncisione?”.
L’ evangelista Luca, discepolo di Paolo, negli Atti degli Apostoli presenta l’apertura a Cristo di u gruppo di pagani (13,48): “Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola di Dio e abbracciarono la fede tutti quelli che erano destinati alla vita eterna”.
I destinati alla vita eterna sono quelli che non si manifestarono in posizione di chiusura di fronte al Vangelo, perché sensibili, anche se peccatori, alla legge della coscienza.
In Cristo si ha il dono dell’essere figli di Dio e (1Gv 3,1) “lo siamo realmente” dice Giovanni. Figli adottivi in Cristo come si legge in (Ef 1,5).
Realmente, indica che in Cristo, nel dono dello Spirito, si ha la realtà piena effettiva della figliolanza con Dio. I figli di Dio dell’economia veterotestamentaria e di quella generale su tutte le nazioni, sono tali in virtù di Cristo, e raggiungono la pienezza di tale figliolanza accogliendo lui, annunciato e testimoniato dalla Chiesa (Gv 1,12): “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”. Tale figliolanza si attua nella Chiesa.  

I miracoli: carità e testimonianza
Nelle religioni non cristiane, formatesi attraverso complicati processi storici, nel succedersi delle generazioni, delle eredità culturali, delle responsabilità, Dio in ragione di Cristo, unico salvatore, non ha mancato di aiutare con luci parziali uomini che veramente cercano nella preghiera Dio, per cui tra gli errori delle religioni ci sono sempre elementi di verità.
Va detto che le religioni non cristiane non sono dei percorsi paralleli a quella cristiana: esse sono salvifiche non mediante se stesse, ma nonostante se stesse.
Nelle religioni non cristiane non si possono avere i miracoli maggiori: risurrezione dei morti, guarigione dei lebbrosi, moltiplicazione dei pani e dei pesci, ecc. I miracoli, infatti, non sono solo opera di carità, ma di testimonianza del divino. Ora, nelle religioni non cristiane certo Dio elargisce grazie, ma non le convalida con i miracoli maggiori, quelli che hanno accompagnato la testimonianza di Cristo.
Ne fa prova il vangelo di Marco, che, destinato ai pagani - tra le genti di prodigi mirabolanti si favoleggia -, è fortemente caratterizzato dalla presentazione dei miracoli di Cristo, quale attestazione forte della sua divinità. A ciò va aggiunto il vangelo di Giovanni, che riferisce questa dichiarazione di un testimone oculare (9,32): “Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi ad un cieco nato”; e queste parole di Gesù (Gv 15,24): “Se non avessi fatto in mezzo a loro opere (le opere includono non solo i miracoli, ma anche i comportamenti, l’eco sulle masse) che nessun altro mai ha fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio”.
Le opere di Cristo saranno fatte anche da coloro che credono in lui (Gv 14,12): “In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre”.
Miracoli si hanno pure nel vecchio Testamento, ma essi vengono ottenuti con la preghiera. Gesù li ha compiuti nell’unione con il Padre, e per “parola” propria (Mt 8,16). I discepoli, poi, li compiono nel “nome di Gesù” (cf. At 3,6), avendo, nell’unione orante con lui, il potere dei miracoli (cf. 1Cor 12,10). Il potere dei miracoli è in ordine alla carità e alla testimonianza (Eb 2,4).
I fedeli che ottengono miracoli nella preghiera in ordine alla carità, una volta ricevuto il miracolo, diventano particolari testimoni di Cristo.
I miracoli fatti per l’intercessione dei santi dopo la loro morte sono azione di carità e, nello stesso tempo, delle autentiche di Dio sulla loro vita in Cristo, che in tal modo viene proposta all’imitazione dei fedeli.  

Riguardo alle comunità cristiane eredi di separazioni dalla Chiesa cattolica per scismi ed eresie la salvezza e la santità in Cristo avvengono mediante esse, ma anche in variabile misura, nonostante esse. “Nonostante esse”, vuol dire che i loro sforzi di perfezione sono frenati in diverso grado dai vari pesi delle eresie e degli scismi; ciò vale, ovviamente, anche per il loro apostolato, per mezzo del quale contribuiscono a far conoscere Cristo nel mondo. La Scrittura (cf. 1Cor 5,6; Gal 5,9), a proposito dell’effetto degli errori, avverte che un po’ di lievito fa fermentare tutta la massa.
Ora, essendo che i miracoli maggior non sono solo segno di carità, ma anche testimonianza stringente di autenticità, essi non possono avvenire per mezzo loro, certo su di loro per mezzo della Chiesa cattolica. Potrebbe un miracolo maggiore avvenire per mezzo di un appartenente ad una Chiesa separata dalla Chiesa Cattolica, ma costui sarebbe già giunto, almeno nel cuore (cf. Mc 10,38-40), alla piena comunione con la Chiesa cattolica. Se avvenisse il contrario, di fronte alla Chiesa cattolica, che sul terreno di un autentico ecumenismo –non irenismo- presenta anche i miracoli, i fratelli separati si sentirebbero confermati nelle loro dottrine. Certo, presso di loro ci sono, per la loro preghiera, ed esistendo buona fede verso le loro eredità spirituali, grazie di guarigioni ordinarie e pure liberazione di ossessi, se anche i giudei già le ottenevano (cf. Mt 1,27).
Sempre lo Spirito di unità agisce nei fratelli separati affinché giungano alla piena comunione con la Chiesa cattolica, e sempre agisce nella Chiesa cattolica affinché abbia tutta la carità, il rispetto, l’accoglienza di quanto di vero hanno elaborato, la capacità di rivedere lati inceri del proprio pensiero, la capacità di sacrificio, la preghiera, per dare loro l’accesso alla piena comunione con essa. Il fatto di appartenere alla Chiesa cattolica è una responsabilità davanti a Dio e al mondo; infatti il Vangelo dice (Lc 12,48): “A chi fu dato molto, molto sarà chiesto”.
Circa l’esame dei miracoli è noto quanto sia rigorosa la Chiesa cattolica. Innanzitutto ci deve essere, considerando il caso di una guarigione miracolosa, la documentazione dell’esistenza del male guarito. Tale male deve essere grave, con prognosi infausta, relativo a fatti organici gravi, rilevabili. Potrebbe, infatti, avvenire che il demonio simuli una malattia grave per poi far credere, sottraendo immediatamente il suo influsso, che un tale non a posto con Dio, sia stato capace di fare un miracolo (cf. Mt 7,22; Lc 13,11; 2Tess 2,9; Ap 13,13). Il miracolo deve essere istantaneo (il fatto dell’istantaneità dei miracoli è sottolineato dai vangeli), perché ciò evidenzia l’intervento di Dio: solo Dio ha infatti la possibilità di una sovranità totale sulle cose. Il demonio ha bisogno di tempo per operare una guarigione.
Alcune persone possono accettare l’inganno di compiere prodigi per mezzo del demonio, e presentarli come fatti nel nome del Signore (Mt 7,21).

Gli angeli e il Verbo incarnato
Gli angeli, creati in grazia, coglievano se stessi nel Verbo (in lui è presente l’idea -l’archetipo- da cui scaturiscono), e nel Verbo-Figlio scorgevano e vivevano il loro essere in apertura al Padre, che li aveva creati mosso da un impulso d’amore dello Spirito Santo.
Anche gli angeli possono chiamare Dio, Padre; per questo la scrittura li chiama Figli di Dio (Gb 1,6; 2,1; 38,7).
Per poter giungere alla visione beatifica dell’ Essenza divina gli Angeli erano chiamati ad accogliere il futuro Verbo incarnato: essi sono stati creati in vista di lui (Col 1,16).
Amare, adorare, il futuro Verbo incarnato, era accogliere l’eterna obbedienza del Verbo al disegno del Padre e quindi obbedire in quella obbedienza, era accedere alla visione beatifica dell’Essenza divina per quell’obbedienza.
L’accettazione del Verbo incarnato comportava l’accettazione di servire gli uomini nel loro cammino verso il dono della visione beatifica e di vivere con loro nella gloria.  

Il Verbo incarnato sarebbe stato il capo degli angeli in quanto causa della loro gloria, e in quanto causa e luce delle loro operazioni al servizio degli uomini.
La natura umana è inferiore a quella angelica, ma la natura umana assunta dal futuro Verbo incarnato sarebbe stata subito nella gloria.
Il servizio agli uomini avrebbe dato agli angeli la gratitudine dell’uomo, così che l’amore di Dio per l’uomo li avrebbe coinvolti in un ritorno d’amore.  

La presentazione dell’incarnazione del Verbo fu una prova per gli angeli.
Satana, già angelo luminosissimo, sdegnò con superbia il disegno di Dio e decadde insieme agli angeli che lo seguirono nella ribellione.  

Ora, nell’economia della redenzione, gli angeli servono l’uomo in ragione di Cristo redentore, nel quale gli uomini sono figli di Dio, con intensità superiore agli angeli, poiché egli si è fatto nostro fratello.
Gli angeli erano in posizione di ripulsa per il peccato dell’uomo, ma ora per Cristo redentore fissano il loro sguardo sugli uomini redenti (cf. 1Cor 4,9; 1Pt 1,12).
Tutti gli uomini hanno un angelo custode, ma quelli che custodiscono coloro che vivono in Cristo, con Cristo, per Cristo, sono particolarmente felici per questo.
Ogni favore dato dagli angeli agli uomini è favore che poggia sulla redenzione di Cristo, perché è lui che ha riconciliato le cose del cielo e quelle della terra, ricapitolandole (cioè riducendole ad un unico capo) in sé (Ef 1,10). Ogni azione degli angeli ha Cristo per centro (Gv 1,51).
Cristo è capo della Chiesa in ragione della natura umana assunta, della redenzione compiuta nella condivisione della condizione umana - eccettuato il peccato - e dell’intima unione del suo corpo mistico; intima unione espressa pure dalla categoria nuziale per la quale Cristo e la Chiesa sua sposa sono - questo mistero è grande - una sola cosa (cf. Ef 5,32).
La Chiesa - corpo mistico di Cristo - e le schiere angeliche sono due fatti distinti, ma formano una profondissima unità.

Il profilo interiore di Cristo
Il profilo psicologico, interiore, di Cristo è unico e straordinario. Ciò viene dall’unione della natura umana di Cristo con il Verbo-Persona (quindi si hanno due nature, quella umana e quella divina - senza diminuzione dell’una o dell’altra e senza mescolanza -, e un’unica Persona: quella del Verbo) e dal fatto, conseguente, che la natura umana di Cristo, già ne tempo, aveva accesso alla visione dell’Essenza divina, come presenta il vangelo di Giovanni (3,13): “Eppure nessuno è salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”.
La visione dell’Essenza divina avviene per mezzo del “lumen gloriae”.  

La natura umana di Cristo ebbe coscienza del suo essere unita, nella persona del Verbo, alla natura divina, per mezzo della visione dell’Essenza divina, e non attraverso un atto di fede, che come tale ha bisogno di una rivelazione e di prove di credibilità. L’atto di fede avrebbe segnato una zona di frattura nella coscienza dell’identità base di Cristo.  

Cristo ha una unità psicologica, poiché egli ha un solo Io.
Egli, infatti, è una sola Persona con due nature. L’Io divino del Verbo, che agisce per mezzo della natura umana assunta, è percepito come uno sia dalla sua coscienza umana sia dalla sua coibenza divina.  

Sempre Cristo, orante, ha voluto rimanere nella sottomissione al Padre, non ricorrendo mai al suo essere Dio (cf. Fil 2,7) per riempire di sapere la sua umanità: sarebbe finita la sua opera di salvatore, sarebbe stata disobbedienza, chiusura all’amore del Padre e all’azione dello Spirito Santo. La sua esistenza al contrario è stata obbedienza alla missione datagli dal Padre,ed è stata preghiera per potere sostenere tale missione.
Cristo non solo ha pregato per noi, ma anche per sé, per avere forza poiché la sua volontà umana non era –in quanto tale- invincibile.
Nella lettera agli Ebrei (5,7) viene presentata la pietas del Cristo, sicuramente guardando all’agonia dell’orto degli Ulivi: “Egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo dalla morte (liberarlo dalla forza della morte di croce, che premeva su di lui per farlo soccombere in un atto di separazione dal cuore del Padre) e fu esaudito per la sua pietà”.  

Il vangelo di Matteo (24,36), che presenta formalmente come Gesù non conoscesse la data della fine del mondo, non pone la cosa in contrasto con la visione dell’Essenza divina; infatti, dice che neppure gli angeli, che vedono il volto del Padre (Mt 18,10), conoscono la data della fine del mondo. Dunque l’essere “comprensori”, il vedere Dio così come egli è, non significa cogliere tutte le profondità di Dio (cf. Rm 11,33; 1Cor 2,10). Vi è dunque diversità di intensità nel vedere l’Essenza divina; questo di traduce nella diversa intensità con la quale Dio comunica il “lumen gloriae”.
L’umanità di Cristo aveva, dunque, nella visione dell’Essenza divina, una conoscenza limitata alla sua visione.
L’umanità di Cristo godeva pure della scienza infusa, della grazia abituale e dei doni dello Spirito Santo.  

Se l’umanità di Cristo avesse avuto la comunicazione piena del Padre (la pienezza - in relazione al Cristo - dell’intensità del “lumen gloriae”), il suo corpo non avrebbe resistito al sobbalzo di gioia dell’anima (cf.Es 33,20). Perciò nel momento dell’altissima comunicazione del Tabor - inferiore tuttavia a quella della risurrezione - (Mt 11,25-27; 17,2-5), l’umanità di Cristo fu sostenuta dalla potenza della divinità.
Normalmente l’umanità di Cristo non aveva bisogno di essere sostenuta, per la ridondanza della gioia nel corpo, dalla potenza della divinità. Anzi sul Cristo cadde, progressivamente, il silenzio della comunicazione amorosa del Padre, fino al vertice del silenzio durante la Passione.
Cristo si era addossato, in obbedienza alla missione affidatagli dal Padre, tutti i peccati degli uomini, e il Padre lo trattò da peccato (2Cor 5,21).
Il “lumen gloriae” diede accesso al Cristo alla totale non comunicazione del Padre, colta, appunto, nell’Essenza divina. Al Cristo crocifisso rimase solo l’aiuto della grazia.
Il vertice di silenzio del Padre, che in tal modo nascondeva il suo cuore al Figlio, venne colmato dal Cristo con un atto di fede nel cuore del Padre: non precisamente di fede teologale, poiché Cristo aveva la visione dell’Essenza divina e perciò non aveva la fede teologale.  

Il Padre, che non godeva affatto della morte del Cristo, gli comunicò (il silenzio era comunicazione) il suo silenzio di offeso, nel suo amore, dagli innumerevoli peccati di gravità immisurabile fatti dagli uomini: immisurabile, perché il peccato colpisce Dio, essere di maestà infinita.
Fu lo Spirito Santo a sostenere l’immisericordia del Padre (cf. Is 63,15), per isondabili vertici d’amore.
Al silenzio, che lo Spirito Santo sosteneva nel Padre, corrispondeva il grido d’amore che lo Spirito Santo sosteneva nel Figlio verso il Padre. Così, nella totale assenza di ogni abbraccio del Padre, che causava nel Cristo, obbediente fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2,8), il vertice dell’agonia, si esprimeva l’abbraccio eroico, senza confini, del Figlio verso il genere umano.  

Cristo ci ha rivelato questo abbandono del Padre con le parole (Mt 27,46): “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Questo grido dell’ora nona - le tre pomeridiane - non è solo la manifestazione dell’agonia suprema del Cristo di fronte al vertice di silenzio del Padre, esso ha in sé, infatti - è l’inizio di un salmo (22,2), un’amorosa richiesta di forza per assumere tutto quel silenzio e viverlo in un vertice di amore al Padre, a favore di tutti gli uomini.  

L’ espiazione del Verbo incarnato in relazione alla Trinità
Gli uomini hanno ben presto dimenticato il mistero della Trinità, ma le loro offese a Dio hanno avuto ugualmente riflessi particolari sulle tre Persone: ogni azione è ispirata da un programma (Logos), da un affezione (Amore) e da una meta (Padre), e il programma, come l’affezione e così la meta possono essere di segno opposto al bene.  

Cristo ha espiato le colpe degli uomini nei confronti del Padre restituendo infinitamente al Padre quell’adorazione, lode e ringraziamento che gli uomini col peccato gli hanno negato, gli negano e gli negheranno.  

Il Figlio, dando amore infinito al Padre nell’ obbedienza della croce, vertice della costituzione della Chiesa, è stato reso glorioso dall’ amore del Padre, nello Spirito Santo, con la risurrezione (Rm 1,4; 6,4; 8,11). In tal modo il Figlio, per la sua umanità immolata, ha avuto la soddisfazione delle colpe, nei suoi confronti, dal Padre, il quale coinvolto, nell’abisso del suo silenzio immisericorde sul grande Martire, ha portato alla perfezione il Figlio incarnato e in lui, per mezzo di lui, nello Spirito Santo, ha costituito la Chiesa, che è il corpo mistico di lui e a lui ha dato il potere di giudicare tutti gli uomini in un trionfo finale.  

Lo Spirito Santo, sostenendo il silenzio del Padre e l’espiazione del Figlio, ha trovato la sua soddisfazione nella relazione Padre-Figlio incarnato, poiché il Verbo incarnato nulla ha negato all’azione dello Spirito Santo.  

Anche la Chiesa, corpo mistico di Cristo, attua un’opera di espiazione delle colpe presso il Padre, ma ciò rigorosamente in Cristo, in dipendenza da Cristo, nella partecipazione al suo unico sacrificio della croce che ha espiato le colpe del genere umano ed è la sorgente del dono di completare quanto manca alla sua passione (Col 1,24), ottenendo così dal Padre un aumento della sua santità e della sua estensione nel mondo.
La Chiesa attua una riparazione delle offese fatte al Cristo mediante l’accettazione generosa delle croci, nella partecipazione all’opera salvifica alla quale è stata chiamata.
La Chiesa adora lo Spirito Santo e si lascia guidare da lui, che la congiunge intimamente con Cristo e in Cristo ne fa un’unità d’amore, nell’apertura al Padre.
La Chiesa ripara alla tristezza (Ef 4,30) dello Spirito Santo chiedendo a lui, con impegno, un rinnovato orientamento al Cristo e al Padre.  

Appare chiaro che la bestemmia contro lo Spirito Santo è il rifiuto del dono di partecipare alla relazione tra il Cristo salvatore e il Padre, per questo la bestemmia contro lo Spirito Santo non può essere perdonata. Essa infatti rende inoperante il Cristo e il Padre i quali comunicano lo Spirito Santo che è il vincolo di Cristo, il dono di essere figli di Dio, in comunione con loro.  

Cristo via al Padre
Il Padre contempla se stesso nel Figlio-Pensiero-persona- e ha voluto che gli uomini nel Figlio contemplassero lui; così egli conduce al Figlio (Gv 6,65), perché è in lui che si vede il Padre (Gv 18,9): “Filippo chi ha visto me ha visto il Padre”.
Il volto del Padre che Cristo ci rivela non è quello di un Dio distante, invidioso dell’uomo (cf. Gn 3,5), ma di un Dio misericordioso.
Il Verbo incarnato annuncia, già nel suo essere tale, che Dio è vicinanza, è bontà, è comunione. Egli, il Figlio dell’uomo, si è abbassato fino a noi per servire il Padre nel disegno della nostra salvezza, e tale abbassamento, che ha varcato la distanza infinita tra Dio e la creatura, è arrivato fino all’umiliazione della morte di croce.
Il Verbo incarnato rivela il Padre perché è (Eb 1,3): “Irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza”, e perché sempre ha fatto la volontà del Padre.  

Cristo ha ricevuto –nella natura umana- le parole del Padre nell’ambito della visione dell’Essenza divina, e dunque in modo “sovrumano”, cioè a prescindere da immagini - specie espressa - che caratterizzano il modo umano di apprendere. A tale modo di ricezione (scienza visionis), del tutto superiore al modo proprio della natura umana, si univa quella operata dallo Spirito Santo in modo connaturale alla natura umana (scienza infusa). In questo modo la parola udita dal Padre si radicava con pienezza nell’essere umano di Cristo. Cristo poi calava nella sua esperienza umana, fonte della scienza acquisita, le parole del Padre, vivendole e annunciandole.
Cristo non ci ha detto le parole udite dal Padre come semplice “portavoce”, ma come colui che ha vissuto, obbediente e orante, le parole del Padre, nella prospettiva che anche noi, in lui, via, verità e vita, potessimo viverle.
Cristo ha ricevuto le parole del Padre dal primo istante della sua vita (Eb 10,5).  

Il verbo incarnato è colui che svela pienamente l’ uomo all’ uomo (GS 22,1385; 41, 1446); è il termine della legge (Rm 10,4); è colui che l’ ha portata a compimento ponendo al vertice del compimento la corona dei consigli evangelici (CCC 915; 1973; 1974); è colui che nel suo sangue ha stabilito la nuova ed eterna alleanza; è colui che ha costituito, in lui, nell’apertura al Padre e nel dono dello Spirito Santo,la Chiesa; è colui che ci ha preparato un posto nei cieli; è colui che per mezzo del suo Spirito ridarà vita ai nostri corpi e li renderà gloriosi.  

Cristo datore dello Spirito Santo
Giovanni Battista presentò il Messia come uno che ci avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco, e Gesù dirà (Lc 12,49) di essere venuto a portare il fuoco sulla terra. Il fuoco non è qui in riferimento al fuoco divoratore dei nemici di Dio (cf. Dt 4,24; Dn 7,10), ma al fuoco dell’ altare degli olocausti, che era disceso dal cielo quando Mosè inaugurò l’ altare (Lv 9,24): “Un fuoco usci dalla presenza del Signore e consumò sull’altare l’ olocausto” ; lo stesso accadde a Davide (1Cr 21,26): “Davide invocò il Signore, che gli rispose con il fuoco sceso dal cielo sull’ altare dell’ olocausto”, e a Salomone (2 Cr7,1): “Appena Salomone ebbe finito di pregare, cadde dal cielo il fuoco che consumò l’ olocausto e le altre vittime”.
Il fuoco portato da Gesù Cristo è dunque il fuoco di un nuovo culto fatto in spirito e verità. Il fuoco raffigura l’amore divino che (Rm 5,5) “si è riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”; raffigura, dunque, l’azione d’amore dello Spirito Santo in noi.
E’ il nuovo culto interiore di cui ci aveva parlato Ezechiele(36,26): “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi”.
Nel giorno della Pentecoste apparirà, nel quadro di un vento forte, quel fuoco.
Il fuoco, significante l’azione dello Spirito Santo, scalda, fonde, purifica, illumina.
Il vento muove, spinge: è lo Spirito Santo che spinge la Chiesa a diffondere il fuoco dello Spirito Santo che ha ricevuto su tutta la terra.  

Cristo, presentando lo Spirito Santo, ha parlato pure di acqua viva (Gv 4,10): “Se tu conoscessi il dono di Dio (cioè lo Spirito Santo) e chi è colui che ti dice: ‹Dammi da bere!›, tu stesa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva”; (Gv 7,37): “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”.
Lo Spirito Santo nella simbologia dell’acqua è visto in riferimento alla sua azione ristoratrice e vivificante. Egli nel cammino nel deserto è l’ acqua che scaturisce dalla roccia; la qual roccia è Cristo (Es 17,6; Num 20,8; 1 Cor 10,4).
L’ azione dello Spirito Santo nel mondo, per mezzo della Chiesa, è profeticamente presentata da Ezechiele (47,5) come un fiume le cui acque scaturiscono dal tempio, che è Cristo, e si espandono sempre più.
Nell’ Apocalisse (22,1) l’azione dello Spirito Santo è presentata come un fiume di acqua viva limpida che irrora la Gerusalemme messianica, cioè l’ ente terra lievitato nelle sue realtà dalla Chiesa.
La colomba è un altro simbolo dello Spirito Santo, come si ricava dall’ evento del battesimo di Gesù al Giordano (Mt 3,16): “Vide lo Spirito di Dio scendere “come” una colomba e venire su di lui”; (Mc 1,10): “Vide aprirsi i cieli e lo Spirito Santo discendere su di lui “come” una colomba”; (Lc 3,22): “in apparenza corporea ( dunque una visione sensibile), come di colomba”. La colomba non poteva che essere costituita da un fuoco bianco raggiante splendore.
La colomba simbolicamente indica la pace: come tale si ritrova nel racconto del diluvio (Gn 8,8)( riconciliazione) e nelle espressione del Cantico dei cantici (2,14; 4,1; 5,2; 5,12, 6,9). La colomba (Ps 68, 14) indica anche Israele vittorioso sui suoi nemici per la potenza di Dio, e non per la forza delle armi (Ps 44,4). La pace è la caratteristica dell’azione del Messia, egli stabilisce la pace, ma non come la stabilisce il mondo (Gv 14,27), che vuole un impossibile pace fondata sulla legittimazione dell’ egoismo ( Mt 10,34).
L’ amore increato, lo Spirito Santo, scese su Cristo consacrandolo Messia di pace, Principe di pace, nella forza dell’amore (At 10,38).
Cristo aveva lo Spirito Santo dal primissimo istante dell’incarnazione, ma nel battesimo di penitenza nel Giordano scese su di lui, il servo sottomesso al volere del Padre, affinché iniziasse la sua pubblica opera di Messia. (Lc 4,1): “Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano”.  

Lo Spirito Santo è detto Spirito di verità: Cristo è la verità di Dio, è la Verità. (Gv 1,14 ): “Pieno di grazia e di verità”; (Gv 1,17): “La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo”; (Gv 14,6): “Io sono la via, la verità, la vita”.
Lo Spirito, che scruta le profondità di Dio (cf. 1Cor 2,10), conduce alla verità tutta intera. (Gv 14,26): “Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto”.
(Gv 16,13): “Quando però verrà lo Spirito di verità egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da se, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future”.
Condurrà alla verità tutta intera che farà comprendere le parole e i gesti del Cristo.
Vi annunzierà le cose future perché, vivendo in Cristo e comprendendo nello Spirito la sua parola, si ha la chiave per leggere gli avvenimenti e cogliere luci sul prossimo futuro. (Qui non si parla solo del dono della profezia. cf. sap. 8,8).  

Lo Spirito Santo è detto “il Consolatore” (Gv 14,16 ; 26): “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre” ; “Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome”.
Lo Spirito Santo è dunque il Consolatore in quanto c’illumina la verità e ci accende il cuore d’amore.  

(Gal 5,22): “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”.
Chi ama è nella gioia, quella che ci ha donato Cristo (Gv 15,11). (1pt 1,6): ”Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove” ; (Gc 1,2): “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prova”.  

Lo Spirito santo è il dono increato che agisce comunicando la grazia santificante e la grazia attuale, che sono doni creati.
La “Grazia” è Dio inabitante in noi con i suoi doni. Dio è uno e Trino, così inabita nell’anima in grazia non solo lo Spirito Santo, ma tutta la Trinità.
Nel dinamismo dell’unione con Dio si dice che il Padre è sopra di noi, il Figlio incarnato è in noi e lo Spirito Santo è nel nostro spirito, intendendo per spirito il ”centro”, “la parte” (usando un linguaggio improprio) intellettiva e volitiva dell’ anima (cf. 1 Ts. 5,23).  

(1 Cor 12,4): ”Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito”. I carismi dati dallo Spirito Santo sono dati per il servizio di edificazione della Chiesa (cf. 1 Cor 14,12 ss).

Cristo vittoria di Dio e vittoria dell’ uomo
Il tentatore di fronte al Cristo crocifisso e risorto non ha alcuna arma: è totalmente vinto.
Cristo sulla croce è l’attestazione dell’infinito amore di Dio per l’ uomo; e la smentita totale dell’ insinuazione dell’ Tentatore articolata sul dubbio circa l’ amore di Dio; è la restaurazione della comunione tra gli uomini compromessa dal peccato, che ora viene nel superamento del livello di comunione dell’ Eden, poiché (Rm 5,15): “ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo si sono riservati in abbondanza su tutti gli uomini” ; (Rm 5, 20): “laddove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia”.  

Gesù ha detto: (Mt 10, 37): “Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me” e si può aggiungere, anche se non scritto nel Vangelo Chi ama lo sposo o la sposa più di me non è degno di me. Gesù Cristo chiede, dunque, che i legami fondati sull’amore umano vengano vissuti in lui, il Verbo incarnato, che in quanto Verbo, è all’ origine di tutte le cose e in quanto Verbo incarnato, è all’ origine della ricomposizione delle stesse e loro fine e compimento glorioso. Egli è l’alfa e l’omega (cf. Ap 1,8 ; 21, 6; 22, 13).  

Cristo non soltanto si è incarnato, ma ha condiviso la nostra condizione umana (Fil 2, 8; Eb 4, 15). Egli non si è data una vita di eccezione. Poteva comparire già all’età di 30 anni, ma ha voluto nascere da donna (Gal 4, 4), e quindi vivere tutte le tappe della crescita (Lc 2, 40): “Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza e la grazia di Dio era sopra di lui” . Ha voluto nascere sotto la legge (Gal 4,4) per assumere la condizione di servo (Fil 2, 7) ha voluto condividere la fatica del lavoro ( Mc 6,3 ); ha voluto essere insidiato dal tentatore (Mt 4, 1); ha voluto condividere la sofferenza (Is 53, 4): “Egli si è caricato delle nostre sofferenze”; ha voluto essere “messo a morte nella carne” (1 Pt 3, 18); ha voluto avere una madre e un “padre” (cf. Lc 2, 48) per dare un nuovo volto alla famiglia nella quale deve vivere, innanzi tutto, l’unione dei cuori: Giuseppe e Maria nel loro matrimonio verginale proclamano questo.
In tal modo egli ha raccolto tutta la nostra esistenza diventando modello di vita e comunione con il Padre e di vita interpersonale.  

Per espiare le innumerevoli colpe di gravità immisurabile bastava una sola goccia di sangue del Cristo. Il Padre sarebbe stato saziato nella sua giustizia solo da questo, ma l’uomo si sarebbe tolta subito la possibilità della salvezza considerando con ironia che l’amore del Cristo per lui era stato molto limitato e che perciò non poteva vivere il Vangelo: il Vangelo gli sarebbe apparso un armiamoci e partite. La salvezza ci è giunta, quindi, con la consumazione sulla croce. Il Padre ha dato al Figlio il genere umano solo nell’abbraccio della croce (Gv 12,32): “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me”. Abbraccio che è il gesto proprio dell’amore di Cristo per noi, del suo essere per noi fino all’accettazione delle estreme conseguenze, (Gv 13,1) “sino alla fine”; del suo essere (Gv 10,11) “ Il buon pastore che offre la vita per le pecore”.
Il percorso tracciato da Cristo è di gioia, d’amore, di vita, ma anche percorso che conosce la croce. L’ uomo ha la tendenza a volere rientrare nel paradiso terrestre ( cf. Gn 3,24 ); in ciò rientra, in definitiva, la richiesta di Pietro di fare tre tende sul Tabor e, ancora, l’invito rivolto a Gesù di non andare a Gerusalemme.
Cristo ha presentato con chiarezza che chi lo (Mt 16,24) vuole seguire deve rinnegare se stesso, prendere la sua croce e seguirlo. Fare ciò equivale a lasciare il percorso verso il paradisiaco giardino carico di disobbedienza a Dio e camminare nel percorso tracciato da Cristo. Si tratta di non percorrere alcun tratto del cammino della disobbedienza, segnato dal voler privare Dio della sua trascendenza, potenza e vita, per farne una realtà lontana, vuota e impersonale.
L’ateismo è faticoso, fallimentare e lo si è capito: meglio ammettere Dio, ma svuotarlo di tutto.
La morte, elemento di forte riflessione sull’errore di volere percorrere la strada verso il giardino della disobbedienza, viene vista, dalla disobbedienza, come indicazione che bisogna in tutti i modi godere dell’ attimo presente: è la follia di chi chiama la morte amica (cf. Sap 1,16; 2,1 ss). La morte è invece nemica (cf. 1Cor 15,26), ma, vinta e legata al carro del vincitore, è fatta serva dell’unione con Cristo in attesa del suo ultimo annientamento nel giorno della risurrezione.  

Il comandamento dell’ amore al prossimo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, è strettamente collegato e dipendente dal comandamento di amare Dio (Mt 22,39): “Il secondo comandamento è simile al primo”. Gesù ha presentato il compimento del secondo comandamento dicendo che il nostro prossimo è ogni uomo che ci sta accanto, al i là di ogni nazionalità, etnia e religione, che dobbiamo perdonare 70 volte 7, che dobbiamo amare anche i nemici e pregare per loro. Da questo piano evangelico si innalza la vetta di quella carità che non ha come termine di confronto l’ amore a noi stessi, ma va oltre ponendo come termine di confronto l’ amore di Cristo per noi (Gv 13,34; 15,12): “Vi do un comandamento nuovo: che vi amate gli uni agli altri; come io vi ho amato così amatevi anche voi gli uni agli altri”. Si ha così un amore che giunge a far dimenticare se stessi, fino a dare la vita per i fratelli (1 Gv 3,16): “Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”. Queste altezze dell’amore, che rendono amici di Gesù (Gv 15,14), sono offerte a tutti. E’ l’unità in Cristo, nella Chiesa, che dà vita a una interpersonalità nuova, che è testimonianza della reale appartenenza della Chiesa al Risorto (Gv 13,35): “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.  

Cristo modello di ogni virtù
Il seguire le orme di Cristo (cf. 1Pt 2,21) è rifiutare il vizio e attuare l’imitazione di Cristo, modello di ogni perfezione.
Nella Scrittura vi sono elenchi di vizi. Nella lettera ai Romani si ha (1,29-31): “Colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni di invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi del male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia”; (13,13) “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie”. Nelle lettere ai Corinzi (1; 6,9): “Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci, erediteranno il regno di Dio”; (2; 12,20): “Non vi siano contese, invidie, animosità, dissensi, maldicenze, insinuazioni, superbie, disordini”. Nella lettera ai Galati (5, 19ss): “Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere”.
Altri cataloghi l’Apostolo Paolo li presenta nella lettera agli Efesini (5,5), nella lettera ai Colossesi (3,5ss; 5,7), nella prima lettera a Timoteo (1,10), nella seconda lettera a Timoteo (3,2ss), nella lettera a Tito (3,3).
L’apostolo Pietro nella sua prima lettera presenta questo elenco (4,3): “Basta col tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni e nel culto illecito degli idoli”. Nell’Apocalisse si ha (21,8): “ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gl’immorali, i fattucchieri, gli idolatri e per tutti i mentitori”.
Le virtù dell’uomo naturale sono nel cristiano rese nuove nello Spirito Santo sul fondamento delle virtù teologali: fede,speranza e carità. Esercitare le virtù è vivere in Cristo, con Cristo, per Cristo; è tradurre nei fatti la sua parola, nell’apertura al Padre, nell’accoglienza umile e corrispondente dell’azione dello Spirito Santo, e nella comunione con i fratelli; è (Rm 13,13) “rivestirsi di Cristo”; è (Col 2,6) “camminare nel Signore Gesù Cristo”; (Col 2,6) “essere morti con Cristo”; (Col 3,1) è “essere risorti con Cristo” è (Col 3,9-10) “essersi spogliati dell’uomo vecchio e avere rivestito il nuovo”; è (Col 2,2-3) “crescere nella conoscenza di lui, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza”; è (Rm 8,4ss) “camminare secondo lo Spirito”.
Nella Scrittura vi sono elenchi di virtù.
Il Vangelo presenta le virtù nell’ambito delle beatitudini (Mt 5,3ss). Nella lettera ai Galati si ha (5,22-23): “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”; nella lettera ai Romani si ha (5,3-4): “Ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza”; nella prima lettera ai Corinzi si ha (13,4-7; 13): “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira; non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (…). Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità”; nella lettera agli Efesini (4,1-2): “Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore”; nella lettera ai Colossesi (3,12): “Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza”; nella prima lettera ai Tessalonicesi (1,3): “Memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo”, (5,8) “Noi invece, che siamo del giorno, dobbiamo essere sobri, rivestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza”;nella seconda lettera di Pietro si ha (2Pt 1,5-11): “Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità”.  

L’amore al fratello è condizione cardine dell’amare Dio, il quale ci ama per primo e chiede di essere riamato. L’uomo redento è modellato ad immagine di Cristo, il quale è colui che, visto, ci fa vedere il Padre (1Gv 1,2; Gv 1,18; 12,45ss), così l’uomo in Cristo dà notizia di Dio; ma anche nell’uomo non ancora in Cristo si riceve notizia di Dio in quanto Cristo lo ama e lo invita a sé.
Dunque amare il fratello conduce ad amare Dio, cosicché chi non ama il fratello che vede e che gli dà notizia di Dio non può amare Dio che non vede.
Il pensiero di Giovanni nella sua prima lettera (4,20) ha un preciso risvolto polemico contro gli gnostici i quali legavano l’amore a Dio al vederlo con visione facciale, già nel tempo, (1Gv 2,4; 3,2; Gv 1,18; 3,13; 5,37; 6,46), e quindi li coglie in contraddizione, poiché non amavano affatto il fratello che vedevano.

Cristo dono della capacità di trasformare le cose cattive in cose buone
(CCC 2015): “Il cammino della perfezione passa attraverso la croce. Non c’è santità senza rinuncia e senza combattimento spirituale. Il progresso spirituale comporta l’ascesi e la mortificazione, che gradatamente conducono a vivere nella pace e nella gioia delle beatitudini: Colui che sale non cessa mai di andare di inizio in inizio, non si è mai finito di incominciare. Mai colui che sale cessa di desiderare ciò che già conosce" (S. Gregorio di Nissa).
(CCC 2340): “Colui che vuole restare fedele alle promesse del suo Battesimo e resistere alle tentazioni, avrà cura di valersi dei mezzi corrispondenti: la conoscenza di sé, la pratica di un’ascesi adatta alle situazioni in cui viene a trovarsi, l’obbedienza ai divini comandamenti, l’esercizio delle virtù morali e la fedeltà alla preghiera”.
(CCC 2733): “Un’altra tentazione, alla quale la presunzione apre la porta, è l’accidia. Con questo termine i Padri della vita spirituale intendono una forma di depressione dovuta al rilassamento dell’ascesi, ad un venire meno della vigilanza, alla mancata custodia del cuore".Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt 26,41). Quanto più si cade dall’alto tanto più ci si fa male. Lo scoraggiamento, doloroso, è l’opposto della presunzione. L’umile non si stupisce della propria miseria; essa lo conduce ad una maggiore fiducia, a rimanere saldo nella costanza..
Il momento più faticoso dell’ascesi è all’inizio, quando si entra in contatto con la pesantezza dell’umano, ancora più pesante per i peccati personalmente commessi, ma poi, crescendo l’amore, si corre sempre più agilmente avendo gustato la dolcezza dell’imitazione di Cristo.
Cristo ci ha insegnato a trasformare le cose cattive in cose buone. Tale scienza ci viene presentata dalla sua croce. Essa strumento di morte è diventata, per mezzo dell’amore, fonte di vita. Gesù ci ha detto (Mt 5,10-11): “Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia”; (Mt 16,24) “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”; (Gv 12,24) “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. L’apostolo Paolo nella lettera ai Romani ha scritto (8,28): “Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”; l’apostolo Pietro dice (1Pt 1,6): “Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla”.
Il dinamismo della trasformazione delle cose cattive in cose buone consiste in questo: nel momento della difficoltà la nostra umanità insorge scatenando il suo armamentario di sentimenti di rabbia, di vendetta, di rivalsa, di dubbio circa l’amore di Dio, il credente, però, insorge e lotta aderendo a Cristo e alla sua parola; ne consegue che, scegliendo Cristo e rifiutando l’insorgere della carne, l’uomo si purifica e cresce nell’amore di Dio e dei fratelli.
Il rinnegamento di sé non è autolesionismo, ma è lotta contro l’amor proprio, l’orgoglio, intesi come disordinato sentire di sé. L’autolesionismo mina le risorse dell’uomo, che invece vanno riconosciute quale dono di Dio.
Il cristiano alla vista delle sue qualità buone rimane sempre nell’umiltà. L’umiltà è verità e giustizia: verità perché riconosce i doni di Dio, giustizia perché conduce ad un comportamento adeguato con se stesso. Il frutto di tutto è la carità, la libertà dall’egoismo, ma bisogna aver chiaro che l’amor proprio non muore mai; può essere incatenato, ma non muore mai: è sempre in agguato e pronto a sottrarsi alle catene.  

Dio ci conferma sempre nel suo amore
La vita in Cristo è gioia perché è amore. Dio conferma sempre quelli che lo amano con continue attestazioni d’amore (cf.1Cor 1,8; 2Cor 1,21; 2Ts 2,17; 3,3; 1Pt 5,10).
La confermazione, il rendere saldo l’amore con l’amore, è un fatto che facilmente si riscontra nella vita. Due fidanzati, due sposi, due amici, non si confermano sempre nel loro amore, con attestati d’amore?
Dio conferma sempre con il suo amore, ma non si arriva ad una confermazione nel senso che uno non possa più cadere in disamore verso Dio, per cui bisogna dedicarsi con perseveranza, sino alla fine, alla propria salvezza (cf. Mt 10,22; 24,13; Lc 8,15; 9,62; Lc 21,19; Gv 8,31; 1Cor 10,12; 16,13; Col 2,8; Ef 6,18; Fil 2,12; 2Pt 1,10; ecc).
Certo si può dire: un giorno andrò in Paradiso, ma va sempre sottinteso se persevererò sino alla fine. E anche se lo si potesse dire in virtù di una rivelazione personale di Dio si deve intendere che non è una comunicazione della conoscenza che ha Dio dell’esito finale della nostra vita, ma solo una parola rivolta a promuovere la fede nella volontà salvifica universale di Cristo e, quindi, la fiducia in Cristo, che ha detto (Mt 28,20): “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. Si possono dunque pronunciare le parole dell’apostolo Paolo, che nella sua santità non vedeva nessuna ragione per separarsi da Cristo e ben aveva sperimentato la fedeltà di lui (2Tm 4,8): “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno”, ma queste poggiano sulla certezza della fede che Dio darà il premio a coloro che corrispondono al suo amore fino alla fine, e proprio per questo aggiunge “e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione”: Paolo non aveva nessuna intenzione di cessare di attendere alla sua salvezza con amore (cf. Fil 2,12).  

Se una persona venisse a sapere quello che Dio sa sulla sua salvezza entrerebbe in un blocco psicologico perché verrebbe a sapere quello che liberamente farà e dunque, se venisse a sapere che si dannerà, farebbe di tutto per cambiare la sua libertà con altra libertà, poiché la sua è legata alla rovina, ma non c’è altra libertà: c’è la sua. Se si salverà, non indirizzerebbe più con forza la sua libertà alla scelta di Dio, visto che conoscerebbe l’esito finale, e sarebbe sospinta, come conclusione logica e psicologica, all’inerzia e, per avere il fervore, tenterebbe di sfuggire alla certezza della previsione di Dio poiché vede bene quanto ancora possa flettersi dinanzi alle prove, ma poiché la scienza di Dio è infallibile non potrebbe sfuggire e così sarebbe sospinta nel dramma del predestinazionismo: è Dio che ha deciso di salvarla in ogni caso o, parimenti, dannarla in ogni caso. Dio diventa alla fine un ingiusto. Dio non è più amore, non ha più una volontà salvifica universale.  

La conoscenza di sè
Per rimanere nell'umiltà è necessario rimanere nella conoscenza di sè
               Tale conoscenza si attua con questi mezzi:
  1) La consapevolezza della nostra identità di creature fatte a immagine e somiglianza con Dio. La conoscenza che abbiamo di noi in Cristo: lui svela l’uomo all’uomo (cf. GS 22, 1385; 44,1446).                                             
 
  2) La parola di Dio che presenta i difetti dell’uomo e le virtù che deve praticare.  
  3) Le nostre azioni, per mezzo delle quali, nell’esame di noi stessi, vediamo le nostre imperfezioni e mancanze.  
 
  4) La correzione fraterna, perché tante volte siamo così annebbiati che ci occorre un aiuto esterno per vederci  
 
  5) La preghiera per domandare la conoscenza di noi stessi per mezzo della luce dello Spirito Santo.  
 
       
La conoscenza degli altri
Per avere un corretto rapporto interpersonale con gli altri bisogna cercare di conoscerli, comprenderli, capirli, senza mai giudicarli.
  1) Ogni uomo, nessuno eccettuato, ha nel cuore gli interrogativi fondamentali della vita: da dove vengo, ecc.  
 
  2) Ogni uomo è amato da Dio, che chiede amore per il prossimo.  
  3) Se un uomo non è unito a Dio è sempre ambiguo, perché dice sì e i suoi no in base al suo egoismo.  
 
  4) Conosciamo i vizi e le virtù di una persona in base alle sue azioni (Mt 7,16-17): “Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni”. Occorre essere uniti a Dio per conoscere giustamente il prossimo, sapendo che mai si può arrivare alla conoscenza che ne ha Dio: solo Dio conosce perfettamente il cuore di ogni uomo; solo lui può giudicare conoscendo perfettamente gli estremi delle nostre azioni.  
 
 
 
 
 
  5) Dobbiamo pensare che un’azione sbagliata di un nostro fratello non era mossa da tutta la volontà di sbagliare che sembra a noi.  
 
  6) Giudicare vuol dire entrare nella prospettiva di una condanna, questo assolutamente non può essere fatto. Cristo non è venuto per giudicare, ma per usare misericordia (cf. Gv 3,17). (Mt 7,1): “Non giudicate per non essere giudicati”; (Mt 7,2): “Col giudizio con cui voi giudicate sarete giudicati”; (Rm 14,10): “Perché giudichi tuo fratello?”; ecc.  
 
 
  7) Non bisogna mai approfondire troppo la conoscenza dell’intimo degli altri perché facilissimamente si cade nel giudizio. Quando vediamo il male degli altri l’unica cosa da fare è pregare per loro.  
 
 
  8) Per conoscere correttamente gli altri bisogna cercare di conoscerne la storia, le esperienze, le situazioni della fanciullezza.  
 
  9) Valutare è un’azione che si compie in vista di un compito da affidare a qualcuno. Valutare non vuol dire affatto giudicare, cioè chiudere una persona dentro il carcere di un nostro giudizio. Valutare vuol dire cogliere i talenti di una persona. Valutare vuol dire considerare l’attuale capacità di una persona e anche la sua attuale affidabilità. Per valutare correttamente occorre grande carità.  
 
 
 
  10) Si giudica per abbassare gli altri, per allontanarli dal nostro interesse, per sentirci superiori a loro dando soddisfazione all’invidia, per sfogare le nostre rabbie, per cercare un colpevole dei nostri fallimenti. La parola di Dio ci invita a non innalzarci sugli altri (Mc 9,35): “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo e il servo di tutti”; (Fil 2,3): “Ciascuno d voi, con tutta umiltà consideri gli altri superiori a se stesso”. Se uno si rivela palesemente inferiore a noi, dobbiamo pensare che non ha avuto dagli altri tutti gli aiuti che abbiamo avuto noi, e che, se avesse avuto i nostri aiuti, sarebbe migliore di noi.  
 
 
 
 
 
11) Chi è nella Chiesa ha quella carità che spinge fino al sacrificio affinché gli uomini, anche i grandi peccatori, incontrino Cristo.
 
  12) Giudicheremo quando Cristo ritornerà quale re e giudice (Mt 19,28): “Siederete con me a giudicare le dodici tribù di Israele”.  
 

La Chiesa comunità della vita nuova per rendere nuovo il mondo
Il Verbo incarnato è la via che conduce al Padre, ma è anche la via - lui salvatore del genere umano e capo della Chiesa - che conduce agli uomini.
Così, sempre si compie nella Chiesa la preghiera di Cristo (Gv 17,21): “Perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato”.

(CCC 760): “La Chiesa è il fine di tutte le cose (S. Epifanio), e le stesse vicissitudini dolorose, come la caduta degli angeli e il peccato dell’uomo (luttuosissimo), furono permesse da Dio solo in quanto occasione e mezzo per dispiegare tutta la potenza del suo braccio, tutta l’immensità d’amore che voleva donare al mondo”.

La Chiesa se è esaminata come ente (ente che realmente sussiste nella Chiesa che vediamo) è santa, se è esaminata come insieme di persone bisogna dire che è santa e peccatrice.
La Chiesa è dunque santa e nello stesso tempo santa e peccatrice, e quindi continuamente bisognosa di conversione e penitenza.
La Chiesa è missione. Dio ci ha amato tanto da coinvolgerci nell’attuazione del disegno di Cristo nella storia.
L’amore a Dio e ai fratelli vuole la missione.
La missione richiede amore e obbedienza (cf. Gv 14,15), obbedienza e amore (cf. Gv 15,10).

La Chiesa rende testimonianza della morte e resurrezione del Signore non solo con la parola, ma con la testimonianza della sua vita evangelica: è questa vita evangelica che attesta che il Risorto vive in lei (cf. Gv 13,35;17,21-23). La vita evangelica, nel suo aspetto esterno immediatamente percepibile, è infatti strettamente frutto della partecipazione alla vita trinitaria.
La Chiesa è vita relazionale; essa, perciò, ha come essenza la partecipazione alla vita trinitaria. La sua testimonianza è così fondata sulla sua vita relazionale, all’interno e all’esterno. E’ questa testimonianza che convince il mondo quanto al peccato (cf. Gv 16,8).
Là dove il mondo si aspetta (cf. Sap 2,19) che la Chiesa reagisca con vendetta, ne riscontra il perdono; là dove si aspetta viltà incontra coraggio; là dove pensa lussuria trova purezza; là dove pensa avarizia trova gratuità; là dove pensa insofferenza trova pazienza; là dove pensa ipocrisia trova verità e coerenza; là dove aspetta tristezza e disperazione trova gioia e pace (1Cor 4,12): “Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo”.

Il Padre attira, nell’azione dello Spirito Santo, a Cristo (Gv 6,44): “Nessuno viene a me se il Padre non lo chiama”.
Cristo invita tutti a seguirlo (alcuni in maniera particolare: vita consacrata) e ad aprirsi a lui, nell’azione dello Spirito Santo, al Padre, in una forte appartenenza alla Chiesa e alla sua missione nel mondo.
Lo Spirito Santo suscita il desiderio della risposta a Cristo e la luce e la forza per attuare la conformazione progressiva a Cristo.

La Chiesa non è solo comunione nello Spirito, è anche realtà visibile, con riferimenti gerarchici uniti dall’obbedienza e ai quali va data obbedienza: vescovo di Roma (il pontefice), vescovi, sacerdoti, diaconi.

La chiesa ha come evento centrale la croce del Signore, ed è nella misura con cui vive questo evento che diventa capace di essere (LG 1, 284; SC 24,42): “Sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”.

Il sacrificio eucaristico
Cristo ha istituito il memoriale vivo del suo sacrificio sulla croce nel segno del banchetto, e questo dice come esso sia forza di comunione.

Nella celebrazione eucaristica Cristo, presente per la transustanziazione, rinnova la sua immolazione sulla croce, senza la realtà cruenta; egli ha gli stati interni che ebbe sulla croce nell’insondabile perfezione (cf. Eb 2,10; 6,9) suscitata dall’abbandono del Padre, dall’immisericordia del Padre, che ora non abbandona più - ovviamante - il Figlio che ha reso glorioso nella risurrezione.
Tutta la liturgia eucaristica fa riferimento in Cristo al Padre nell’unità dello Spirito Santo, così che la Chiesa esiste e vive quale realtà di comunione con loro (Gv 17,23): “Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me”; (Gv 17,26) “E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in esse e io in loro”.

Nella celebrazione eucaristica la Chiesa annuncia la morte del Signore e ne proclama la risurrezione nell’attesa della sua venuta (cf. 1Cor 11,26). Tale proclamazione avviene perché si vive la celebrazione eucaristica e il suo frutto viene calato nel vivere quotidiano.
La chiesa grazie alla celebrazione eucaristica rimane nell’attesa del suo signore e quindi resta sempre pellegrina e forestiera in questo mondo: Cristo, tuttavia, ha “toccato” di sé tutto il cosmo (cf. Gn 3,17; Rm 8,19-22), il quale è in tensione verso i cieli nuovi e terra nuova (cf. Is 65,17; Ap 21,1), così la Chiesa anima i credenti a “toccare” le cose, la storia, per improntare tutto di Cristo. L’attesa della sua venuta non è segnata da inerzia, ma al contrario da operosità.
La situazione di vita nuova portata da Cristo vive del costante riferimento alla croce: l’amore infatti si sostanzia di sacrificio. Se si perde il riferimento alla croce di Cristo tutto diventa vecchio, paurosamente vecchio, anche il nuovo del progresso viene riempito di vecchio.

La menzogna e l’odio profanano continuamente il mondo, la Chiesa - perseverante - lo stabilisce e lo ristabilisce in Cristo con la carità. La Chiesa continuamente nella preghiera dice: “venga il tuo regno” intendendo la conversione dei cuori in regno di Dio, in modo che da cuori rinnovati si stabilisca sulla terra la civiltà dell’amore.

I sacramenti dell’iniziazione
Il battesimo
L’acqua era usata nel vecchio Testamento come acqua lustrale per purificare (cf. Es 40,12; Lv 8,6; Nm 8,7; 31,23; Ez 16,4; Gdc 12,7).
Gli apostoli vennero lavati nella lavanda dei piedi, azione battesimale unita all’azione di umiltà.
Risorto, Cristo disse di amministrare a tutte le genti il battesimo, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Giovanni nella sua prima lettera dice (5,6): “Questi è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo"; non con l’acqua soltanto (Giovanni Battista), ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza; (5,11: “Dio ci ha dato la vita eterna”): lo Spirito, l’acqua e il sangue (Gv 19,34: “e ne uscì acqua e sangue”), e questi tre sono concordi”.
(Rm 6,3ss): “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova (la vita nello Spirito"; 1Cor 12,13: “Noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito”): Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato
Il Battesimo rende presente Dio, con i suoi doni, nel cuore, per inabitazione, e imprime un carattere che resta sempre, anche quando l’uomo uccide la presenza di Dio in sé con il peccato mortale.

Tutte e tre le Persone divine vengono menzionate, secondo il comando di Cristo, nel battesimo. Questo perché realmente tutte e tre le Persone sono all’origine della nostra salvezza: il Padre, che ha mandato e dato il Figlio per la nostra salvezza; il Figlio che si è immolato nell’accettazione della croce; lo Spirito Santo, che ha dato nel grembo di aria l’umanità a Cristo e ha sostenuto il cuore di Cristo in una dilatazione d’amore sempre più grande di fronte all’ostilità degli uomini (Eb 2,10;5,9). E le tre Persone, nel battesimo, entrano in relazione intima con il battezzato; il Figlio che nella Chiesa lo rende con corporeo a sé; il Padre che lo accoglie in Cristo come figlio adottivo; lo Spirito Santo che lo stabilisce in un’intima adesione a Cristo nella Chiesa, e nel Cristo lo apre al Padre, in una volontà di comunione che, piena con i fratelli di fede, si apre nell’amore, nella preghiera, nella testimonianza, nell’apostolato, a tutti gli uomini.

La comunione eucaristica
La comunione con il Corpo e il Sangue del Signore è evento necessario alla partecipazione viva della celebrazione eucaristica.
Fare la comunione significa sigillare la partecipazione alla celebrazione con un atto di amicizia profonda con Cristo, nella volontà di vivere il suo comandamento (Gv 15,14). E’ dire un sì senza riserve all’alleanza che egli permanentemente ci offre; è chiedere forza a lui sapendo che senza di lui non possiamo fare niente; è diventare un solo spirito con lui affinché egli faccia di noi, in lui, un solo sacrificio gradito al Padre, e perché tutto nella nostra vita sia orientato al servizio dei fratelli.

La cresima o confermazione
Gesù nel Giordano si manifesta come l’Agnello e per questo egli riceve il compiacimento del Padre, che manda su di lui lo Spirito Santo, che lo consacra re, nella missione di conquistare il genere umano quale vittima nel sacrificio della croce. Cristo, salito alla destra del Padre, partecipò lo Spirito Santo agli apostoli, nel giorno di Pentecoste, perché avessero forza e luce per essergli testimoni in tutto il mondo.
Attraverso l’imposizione delle mani gli apostoli cominciarono subito a comunicare ai battezzati il dono dello Spirito Santo: Usarono il segno dell’imposizione delle mani; un segno di accoglienza, di unione con la Chiesa e di presa di possesso dello spirito Santo: (1Re 18,46; “Re 3,15; ecc.) la mano di Dio.Tale segno, già presente nell’antico Testamento (Num 8,10; 27,18), venne usato da Cristo come segno di accoglienza e benedizione (Mt 19,15; Mc 6,5; 8,23). L’imposizione delle mani, l’unzione con il crisma, rimandano alle consacrazioni regali, sacerdotali e profetiche dell’antico Testamento.
La confermazione o cresima segnava nei primi momenti della Chiesa, come si legge negli Atti degli Apostoli, l’elargizione di carismi per l’edificazione della Chiesa e la sua estensione. Tali carismi straordinari, lo Spirito Santo li continua ad elargire quando vuole e a chi vuole (1Cor 12,11; Eb 2,4), ma essi non possono essere vissuti senza l’accoglienza del carisma dell’autorità, che deve vigilare su di essi, senza estinguere ciò che è autentico (1Ts 5,19).
La cresima perfeziona l’opera della grazia realizzata dal Battesimo dando al fedele una forte configurazione al Cristo testimone della carità fino al sacrificio di sé; in tal modo il sacerdozio comune dei fedeli raggiunge la sua piena consistenza.
Il nome cristiano ha indubbiamente una relazione con l’unzione regale che lo Spirito Santo ha dato a Cisto nel Giordano.
La dignità, cioè l’essere meritevole di rispetto, di un cristiano, che vive (cf. CCC 1468) la sua realtà di figlio di Dio, è solo di poco inferiore a quella sacerdotale. Il Concilio dice che questa dignità va riconosciuta parlando di (LG 32) vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il Corpo di Cristo, pur avvertendo che, all’interno del legame che unisce fedeli e Pastori, questi ultimi hanno: un onore sacerdotale (LG 28), un investimento di dignità per gli uomini (CD 15), un’alta dignità ( PO 1).
Lo Spirito Santo con i suoi sette doni conduce alla conoscenza di tutta la verità (Gv 16,13) e, non mancando mai di consolare in essa (Gv 15,26), dà la coerenza della carità.
Lo Spirito Santo dipinge (cf. Gal 3,1) nei cuori, a tinte vivide, la passione di Cristo, che è la parola nella quale sono compendiate tutte le parole pronunciate dal maestro, e dona la capacità crescente a partecipare alla celebrazione eucaristica nel modo più proprio, cioè unendo se stessi a Cristo in stato di vittima sull’altare.
La cresima imprime il carattere, che perfeziona quello battesimale.

I sacramenti del servizio della comunione
L’ordine sacro
Cristo continuamente promuove la fraternitas della Chiesa e la estende nel mondo mediante - unitamente ai laici - l’azione di coloro che hanno ricevuto l’ordine sacro. Essi per la consacrazione sacerdotale non solo diventano ministri della parola, del sacrificio eucaristico, dei sacramenti, ma diventano costruttori di comunità. La loro azione di fratelli, nel fratello Gesù Cristo, si esercita nella testimonianza della comunione fraterna nell’Ordo episcoporum e nell’Ordo presbyterorum.
L’Ordo diaconorum non è una partecipazione ministeriale al sacerdozio di Cristo, come gli altri due Ordo, me è finalizzato al loro aiuto e al loro servizio (CCC 1554).
La fraternitas lega i tre Ordo tra di loro e con tutto il popolo di Dio.
Il sacerdozio promuove e nutre anche la vita consacrata nelle sue varie forme. La vita consacrata in fraternità ha regole canoniche (costituzioni) per il suo interno, ma fa strettamente riferimento al sacerdozio: episcopato e presbiterato.

Il matrimonio
Cristo ha assunto la sponsalità tra l’uomo e la donna, che è la relazione originante la famiglia, nella grandezza del mistero che lo lega alla Chiesa, suo corpo (cf. Ef 5,32). Cristo è una sola cosa con la Chiesa nel rito sponsale del sacrificio della croce. E’ in questo grande mistero sponsale che la Chiesa sposa genera nell’acqua, nel Sangue e nello Spirito figli a Dio; e così la fraternitas portata da Cristo si estende nel mondo.

La sponsalità di Cristo con la Chiesa è la fonte, nel sacramento nuziale, del rinnovamento del matrimonio e quindi delle relazioni interne proprie della famiglia. Tali relazioni sono aperte alla fraternitas del regno, presente in germe e in crescita nella Chiesa, nella prospettiva del cielo, dove resterà la storia dei legami sponsali, ma dove non ci si sposerà (Mt 20,30).
Il sacerdozio è in relazione con la famiglia per farla crescere secondo la grazia del sacramento nuziale, ed è in relazione con i singoli componenti nell’ambito della fraternitas, senza mai vulnerare la specifica realtà familiare.
Ciò espresso nel fatto che i due ministri propri del sacramento sono l’uomo e la donna, ma il loro sì viene espresso davanti ad un sacerdote, che, mentre accoglie la loro volontà di essere una sola cosa, è vincolo della loro appartenenza alla fraternitas nella loro realtà di sposi.

La fraternitas accoglie la famiglia e la famiglia dona alla fraternitas l’immagine dell’unione dello sposo e della sposa, assunta nel grande mistero dell’unione tra Cristo e la Chiesa. La famiglia dona inoltre le immagini del padre, della madre e dei figli.
Il sacerdote, che esercita sulla famiglia parrocchiale la sua autorità, la esercita nelle caratteristiche di una paternitas. La Chiesa è poi una madre ricca di figli.
La famiglia, nella quale tutti gli uomini hanno vissuto, fornisce l’immagine del rapporto padre-figli, dove l’autorità - “patria” - del padre è resa dolce dalla presenza della madre. La famiglia dona l’immagine, analogica, del Padre dei cieli, che ama i suoi figli, tali nel sacrificio del suo Figlio unigenito.

I sacramenti medicinali
La penitenza
La confessione dei peccati ai ministri del culto era presente nelle prescrizioni dell’antico Testamento relativamente all’oblazione per il peccato, ma i ministri non impartivano nessuna assoluzione. Giovanni la comprendeva nel suo rito di penitenza, non presentando, parimenti, nessuna formula di assoluzione: era solo un’ammissione di peccato (Lv 5,5; Ne 9,3; 16,21, Sir 4,46; 20,3; bar 1.14).
Cristo risorto diede ai discepoli il potere di rimettere i peccati (Gv 20,22): “Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”. Tale potere viene esercitato in un quadro giudiziale, che è di misericordia, e dove è presente l’assistenza dello Spirito Santo nel discernimento dell’esistenza e del pentimento.
Nella confessione si realizza l’incontro con il peccatore pentito e perciò essa deve svolgersi in uno spirito di accoglienza.
All’assoluzione va sempre unita “la penitenza”, cioè un cammino penitenziale che valga a fortificare il peccatore e a immetterlo in una fervorosa vita spirituale.
Se il pentimento del peccatore fosse pieno, l’assoluzione toglierebbe anche la pena, cioè il tempo che uno ha da scontare in purgatorio per i peccati commessi. Pur troppo tale pentimento forte non è comune e così la confessione viene a togliere la colpa, ma non la pena.
I peccati mortali vanno confessati non soltanto indicando la specie, ma anche il numero. Questo perché nella confessione si deve avere coscienza di tutti i peccati commessi. Ovviamente non si richiede un ricordo perfetto.

L’unzione degli infermi
Il testo di Giacomo (5,14ss) presenta non solo i termini che costituiscono il sacramento dell’unzione, ma anche un’azione comunitaria sul malato, perché parla di presbiteri, cioè di più presbiteri. Per il sacramento non si richiedono, ovviamente, più ministri, come intendono i cristiani dissidenti orientali. Il plurale circa i presbiteri indica che la comunità ecclesiale deve farsi sentire attorno al malato, deve fargli intendere la sua stima, la sua preoccupazione, la sua consapevolezza del grande valore della sofferenza vissuta in Cristo; dargli la propria preghiera, la quale -se fatta con fede- potrà guarire l’ammalato.
Il sacramento dell’unzione degli infermi ha come effetto principale la comunicazione di forza all’ammalato di fronte alle difficoltà nelle quali si trova e cancella i peccati veniali.
Il sacramento va ricevuto in stato di grazia, se, tuttavia, l’infermo è in una condizione di assoluta incapacità a fare la confessione (coma, paralisi) e se è abitualmente “attrito” (cioè dolore imperfetto che nasce di fronte al timore della pena) l’unzione degli infermi ha, come effetto secondario, anche la remissione dei peccati mortali.

La preghiera in Cristo
Accogliere Cristo significa riconoscere che si è bisognosi di conversione, sentendo il fascino dell’invito a seguirlo. Significa pure riconoscere la propria radicale incapacità a seguire Cristo, e quindi la necessità di pregare. L’orante prega nel segreto del cuore lodando e ringraziando Dio della sua iniziativa amorosa: Dio ci ama sempre per primo. L’orante non può non servire l’elevazione a Dio dei fratelli: sempre attua la preghiera di intercessione e nell’umiltà convinta invoca aiuto per se stesso.

Le intenzioni della preghiera devono essere innanzitutto soprannaturali, cioè inerenti alla crescita in Dio, di sé e dei fratelli, poi viene la domanda per le cose della terra, sapendo che se (cf. Mt 6,33) cercheremo il regno dei cieli e la sua giustizia, il resto ci sarà dato in sovrappiù.

Il cristiano non è uno che ha solamente dei tempi di preghiera, ma è uno che è chiamato ad essere preghiera. Gesù ha parlato di mettersi in preghiera nella solitudine di una stanza a porta chiusa, in primo luogo per dire che non si deve mai cercare l’esibizione della preghiera, ma ha pure presentato la preghiera comunitaria. Ricca di unione con lui e quindi con i fratelli, nei fratelli, ancora con lui, in una crescita continua sotto l’azione dello spirito Santo, che conforma a Cristo.

La preghiera comunitaria segna un momento privilegiato della preghiera (cf. Mt 19,19). Chi dice che ha più valore la preghiera personale -altamente necessaria- viene a misconoscere che la preghiera ha come anima l’amore non solo verso Dio, ma anche verso i fratelli e che, quest’ultimo, richiede che (cf. Ps 133) “i fratelli vivano insieme”.
La preghiera comunitaria trova la sua espressione più alta nella celebrazione eucaristica; ed è dalla celebrazione eucaristica che procede la salita alle vette della preghiera.
La preghiera nel segreto del cuore trova nella comunione eucaristica il suo momento più forte; infatti ricevendo il Signore nel cuore - dalla bocca al cuore, dicono i padri della Chiesa - si ama il Signore nel cuore.
Non si deve partecipare alla messa solo per fare la comunione, perché se non si partecipa bene alla messa non si farà mai una buona comunione.

La preghiera non può prescindere dall’amare tutte e tre le Persone divine. Chi esprime amore e adorazione ad una no può dimenticare le altre due.
Chi ama il Figlio non può dimenticare il Padre, che lo ha dato per la vita del mondo; non può dimenticare lo Spirito Santo, che lo ha reso visibile nell’incarnazione e ce lo illumina.
Chi ama il Padre non può dimenticare il Figlio, perché solo nel Figlio il Padre ci viene rivelato e solo per il Figlio si sale a lui; non può dimenticare lo Spirito Santo, perché è solo nella sua azione che si può, nel Figlio, adorare e amare il Padre.
Chi ama lo Spirito Santo non può dimenticare il Figlio, che ce lo ha meritato con la sua morte in croce, e non può dimenticare il Padre, che nel Figlio, vincitore della morte, lo ha inviato alla Chiesa.
Chi volesse, poi, dimenticare la croce di Cristo non potrebbe amare nessuna delle tre Persone, perché rifiuterebbe l’evento nel quale si è compiuta la comunicazione d’amore delle tre Persone divine.

La verità della preghiera di un fedele e di una comunità la si vede dalla carità presente nelle sue relazioni interpersonali; infatti, (1Gv 4,21) “chi ama Dio ami anche il suo fratello”.
Nella preghiera si tende a Dio, si continua a cercare Dio già trovato, si vuole possedere eternamente Dio, si serve i fratelli per portarli a Dio. Servire Dio è portare, in unione con Dio, l’uomo a Dio.
Nella preghiera la persona orante vive l’ardore della sponsalità della Chiesa con Cristo e del suo essergli libera serva.
Ogni anima (il termine qui e altrove è assunto ad indicazione di tutta la persona), nella Chiesa sposa e serva, è sposa e serva di Cristo. L’anima, nella Chiesa, che è madre, è pure madre di Cristo, poiché con la sua testimonianza e la sua preghiera lo genera nei cuori (Gal 4,19).

La realtà della comunione dei santi dice che ogni membro della Chiesa ha un’azione su tutta la Chiesa. Ogni preghiera, anche la più misera, ha un suo peso per la Chiesa e per il mondo.

La preghiera dona pace, quiete, nel centro dell’anima, nello spirito (cf. 1Ts 5,23), nel cuore; ma il “quietismo” distrugge la preghiera e la pace.
La preghiera è desiderio di Dio e il desiderio di Dio conduce a sempre maggior desiderio: è la “malattia d’amore” della sposa nel Cantico dei Cantici (2,5; 5,8). Malattia causata dall’Amato, il quale è egli stesso malattia e farmaco. Farmaco che mentre sana, ferisce con l’amore ancor più l’anima: solo in cielo la malattia cesserà, perché il desiderio sarà appagato dall’eterno possesso di Dio.
La preghiera nei suoi vertici più alti è “amare pur non essendo amati”,ciò avviene quando dio non comunica la devozione sensibile. Chi cerca nella preghiera gusti e consolazioni finisce per amare le consolazioni di Dio e non il Dio delle consolazioni e si espone agli inganni del Maligno, che ben presto paralizzerà l’anima nella gola alle consolazioni e poi le camufferà, avvelenandola paurosamente.
La preghiera vuole l’amore di fusione, che si ha quando l’anima si sigilla tutta nei suoi sentimenti a Cristo. L’amore di fusione sale poi all’amore di compartecipazione dove l’anima “avvolge” il Cristo contemplandone i dolori, che lui, nella luce dello Spirito Santo, le fa vedere e, a volte - ad alcuni grandi mistici - sentire sulla carne (cf. san Francesco, santa Veronica Giuliani, il santo Pio da Pietrelcina, ecc.). Così l’anima desidera patire con lui e per lui, per le anime, così che giunge a dire (Gal 2,20) “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” e ancora (Gal 6,14) “Non ci sia altro vanto per me che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo”. L’amore di compartecipazione si nutre di ogni martirio sostenuto per Cristo, in Cristo, con Cristo, per le anime, nell’amore a Dio Padre, nell’unità dello Spirito Santo.
La preghiera chiede penitenza, perché la penitenza dà forza all’amore, come l’amore è la scintilla della penitenza. L’amore si sostanzia di sacrificio, come Cristo ci ha fatto vedere.
L’amore vuole il cuore puro, e il cuore puro è una realtà a cui bisogna incessantemente tendere. Il cuore è paragonabile ad una macina che macina sempre. Se nella macina del cuore mettiamo, dunque, semi di curiosità, di lussuria, di invidia, di vanità, di esibizione, ecc. il cuore macina quelli, ma, se noi mettiamo nel cuore il buon frumento della parola di Dio, il cuore dà una farina nutriente, che sostiene e fa crescere la vita spirituale.
Il cuore puro cerca di piacere a Dio con le virtù e fa tutto per la gloria di Dio. Il cuore non puro cerca di piacere agli uomini per il proprio tornaconto e di innalzarsi su di loro autocelebrandosi. Il cuore puro sa conservare (cf. Tb 12,7) “il segreto del Re”, non lo disperde e lo comunica solo, con umiltà grande, a chi vede che non lo sciuperà.
Chi ama soffre nel vedere l’amato colpito, misconosciuto; così, nel vedere Dio offeso, l’innamorato di lui soffre e offre il suo amore in riparazione; e soffre nel vedere i fratelli nella morte del peccato - quindi nella condizione di meritare l’inferno (CCC 1037: un peccato mortale) - e offre a Dio, facendo la penitenza che quelli non vogliono fare, il suo amore, affinché essi abbiano la vita in Cristo.

Conoscere e amare Maria
Cristo ci ha donato Maria per madre. E’ un dono altissimo di partecipazione alla sua persona. Donandoci la madre ha voluto che fossimo formati da lei in lui. Maria infatti è “la forma di Dio”; “la forma” nella quale si è formato il Cristo. Si è formato non solo quanto al corpo, ma anche quanto alla mente. Gesù aveva, in quanto uomo, una mente umana, che ha voluto, benché avesse la scienza infusa e quella di visione, che seguisse gli sviluppi propri dell’uomo, così Maria gli ha insegnato tante cose e gli ha comunicato l’influsso della sua indole così come, in proporzione opportuna, ha fatto il padre putativo Giuseppe.
Lui, nuovo Adamo, dandoci la Vergine Immacolata per madre, ha voluto che avessimo una nuova Eva, che segnasse di sé, nell’ordine della grazia, la nostra esistenza. L’antica Eva ci aveva segnati con la sua disobbedienza, la nuova Eva ci influenza con la sua obbedienza. La prima cosa, infatti, che Maria ci comunica è l’obbedienza alla volontà di Dio, radice di pace, di gioia, di amore.

Accogliendo Maria, noi viviamo l’imitazione integrale di Cristo; Cristo, infatti, ha associato sempre a sé Maria; così, ricevendo da Cristo la Madre, la dobbiamo associare in tutto alla nostra esistenza. Se così non viene fatto, non possiamo giungere ad un’altra conformazione a Cristo. Associare a sé Maria vuol dire farla entrare nella nostra esistenza con il suo ruolo di madre. Associare a sé Maria vuol dire ricercare il suo aiuto, il suo conforto, così come Cristo cercò il conforto di Maria. Maria ci conforta con il suo amore, che è preghiera a Dio perché possiamo crescere in Dio, che è comunicazione di sé attraverso una singolare grazia attuale, che lo Spirito Santo dona; così Maria ci viene comunicata, secondo il suo desiderio materno di comunicare se stessa. Si ha così nell’anima una presenza di Maria, che non è altro che una marianizzazione; presenza, dunque, da non confondere, né paragonare, con quella di inabitazione di Dio.
Non possiamo frustrare il diritto di Maria di comunicarci se stessa. Bisogna dare spazio a Maria. Maria ci comunica se stessa non per trattenerci a sé, ma per farci crescere in Cristo; infatti, lo Spirito Santo agisce con potenza in un’anima dove vede i tratti della sua purissima sposa, e così l’anima posta nella “forma Dei” diviene, per l’azione dello Spirito Santo, particolarmente conforme a Cristo.
Il nostro rapporto con Maria è quello di un figlio con la madre, e questo fatto ci rende sempre più pienamente fratelli di Cristo, lui l’autore della nostra unione col Padre. E’ verissimo che chi non ha Maria per Madre non ha Dio per Padre.
Ma, ecco, in Cristo si attua la fraternitas dei figli e delle figlie di Dio, dunque Maria è in Cristo figlia eccellentissima del Padre e nostra sorella. La base del nostro rapporto con Maria è quella di madre-figlio e figlio-madre (Gv 19,26-27), senza esclusione della consapevolezza che essa è anche nostra sorella in Cristo, cioè membro eccellentissimo della Chiesa, la comunità dei figli e delle figlie di Dio.
Maria è figlia dell’eterno Padre, madre del divin Figlio e sposa dello Spirito Santo; l’essere madre di Cristo, capo della Chiesa, porta con sé che Maria è anche madre della Chiesa. Maria deve essere imitata nel suo totale orientamento a Cristo, e nel Cristo, nell’azione dello Spirito Santo, nel suo totale orientamento al Padre.
Maria ci è stata donata quando era ai piedi della croce e questo segna il nostro incontro con lei, perché in lei vediamo il modello perfetto di partecipazione alla Passione di Cristo. Guardando Maria, impariamo a credere sempre, in ogni circostanza, nell’amore di Dio, a meditare nel cuore, conservandolo puro, a donarci sempre a tutti. Guardando lei, imitando lei, ci si avvicina a Cristo, perché tutto in Maria è improntato a Cristo.
Maria è la pronuba che ci conduce nel territorio della croce, dove si è celebrato il rito nuziale che lega Cristo alla Chiesa. Lei ci conduce alle mistiche nozze con Cristo. In lei, “forma Dei”, con lei, per lei, l’anima vive con intensità l’essere figlia dell’eterno Padre, sposa del Verbo incarnato e discepola dello Spirito Santo. In lei, con lei, per lei, si viene introdotti nella “cella del vino” (Ct 2,4) dove il vino è il sangue di Cristo. Il che vuol significare che si è introdotti ad un’intima partecipazione al sacrificio eucaristico, ad una accesa meditazione della Passione di Cristo, fino alle vette dell’amore di compassione dei patimenti di Cristo, facendoli forza, luce e conforto al patire.
A Maria va dovuta gratitudine perché il suo sì ha reso il Verbo eterno della gloria nostro fratello. A Maria va dovuta lode perché è stata grande nella sua totale offerta a Dio, nella prospettiva dell’opera della salvezza compiuta dal Figlio. Lode, gratitudine, ricorso orante, sono il nostro ritorno d’amore a Maria.

Luca (1,34) presenta Maria che dice all’angelo: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?”. Tali parole non sono pronunciate da una Maria confusa -  non lo era - e quindi senza un preciso senso, dicono invece che Maria aveva fatto l’offerta di sé a Dio nella verginità. E poiché Maria era già impegnata con Giuseppe, vuol dire che Maria aveva già presentato a Giuseppe la sua consacrazione a Dio: sarebbe stata disonestà fare diversamente.
Circa il cammino di Giuseppe bisogna dire che fu attratto dalla prospettiva verginale di Maria e l’accettò. Così quando vide Maria con i segni di una gravidanza pensò che fosse stata profanata da una violenza. Fu il dramma: da una parte la Legge che gli presentava il libello di ripudio (Dt 22,20), dall’altra il pensiero dell’innocenza di Maria. Giuseppe, convinto dell’innocenza di lei, pensò anche di prendere ugualmente con sé la sposa come si deduce dalle parole dell’angelo (Mt 1,20) : “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa”. Rimase, però, fermo alla Legge e la soluzione fu quella di rimandare in segreto Maria, cioè di non esporla ad una diffamazione; soluzione che, nel caso di violenza subita dalla donna, era probabilmente contemplata dalla speculazione rabbinica.
Dunque, Giuseppe prese con sé Maria non in ragione della Legge, ma in ragione dell’identità del generato in e da Maria. Così il matrimonio di Giuseppe con Maria si attuò in ragione di Cristo e, quindi, nella nuova economia salvifica. In questo momento Giuseppe ebbe la liberazione dalla colpa originale, quindi ebbe la grazia santificante e il matrimonio con aria fu sacramento.
La verginità perpetua d Maria (prima del parto, durante il parto, dopo il parto) non è una realtà che riguarda soltanto i consacrati a Dio nella vita verginale, ma anche gli sposati, perché la verginità di Maria vissuta con il castissimo Giuseppe è annuncio che il matrimonio è innanzitutto incontro dei cuori e che non c’è affatto noia in un matrimonio che non voglia fare di sé un festino o peggio.
A difesa della perpetua verginità di Maria va detto che i fratelli di Gesù (Mt 13,55; Mc 6,3; Lc 8,2; Gv 2,12) non sono altro che i cugini e suoi compagni di infanzia: il termine cugino non c’era nella lingua aramaica.
Luca (2,7), molto vicino all’apostolo Paolo (Col 4,14; Tm 4,11; Fm 24), dice che Maria “diede alla luce il suo figlio primogenito”, intendendo che noi siamo i secondogeniti: questo è rilevabile con chiarezza alla luce del voto permanente di Maria a non volere conoscere uomo, che l’evangelista presenta.
Circa la verginità durante il parto si deve dire che (Lc 1,37) “niente è impossibile a Dio”. Cristo, realmente risorto col suo corpo – glorioso, ma non assolutamente smaterializzato -, entrò nel cenacolo - per virtù della potenza divina - a porte chiuse, e quindi poté ben uscire dal grembo verginale di Maria “a porte chiuse”.

L’amore a Maria non si distingue essenzialmente da quello per i santi, ma, tuttavia, possiede una sua specificità, poiché Maria è la madre di Cristo e della Chiesa e quindi ha un ruolo unico, singolare. Il culto a Dio si chiama “latria”, quello ai santi “dulia”, quello alla beata Vergine Maria si chiama “iperdulia”.
A san Giuseppe, sposo castissimo di Maria e padre legale di Gesù, capofamiglia, nell’umiltà e nell’amore, della Sacra Famiglia, si può ben rivolgere un culto di “iperdulia minor”.

Pregare Maria è riconoscere che si è bisognosi di lei perché lei è deputata, con lo Spirito Santo, alla nostra crescita in Cristo e perché, essendo noi imperfetti, abbiamo bisogno della sua intercessione presso Dio.
Chi non ha umiltà non può capire Maria. Dio ha guardato all’umiltà di Maria. Chi non ha umiltà non può amare Maria, perché Maria è la donna che ha cantato l’umiltà (Lc 1,46ss).
Cristo è il centro della vita spirituale, il maestro, lo sposo, l’unico salvatore, l’unico mediatore verso il Padre, la via che conduce al Padre, ma chi può dire che la sua preghiera a Cristo sia perfetta e non bisognosa dell’aiuto orante di Maria, che è apparsa al mondo come una stella nova per la sua immacolata concezione ed è diventata una stella super nova per la sua corrispondenza?
Pregare Maria non è delegare a Maria la nostra preghiera, ma è chiedere l’aiuto a Maria, affinché la nostra preghiera sia a Dio gradita.

Un conto è affidarsi a Maria, un conto è consegnarsi a Maria. Affidarsi a Maria è chiedere la sua protezione, è esprimere fiducia filiale in lei. Consegnarsi a Maria è darle il diritto di esercitare in pieno nella nostra vita il suo compito di madre, è consegnare ogni nostro bene a lei, affinché in lei, con lei, per lei, diventiamo, nell’azione onnipossente dello Spirito Santo, sempre più intimi di Cristo, e quindi figli diletti dell’eterno Padre e discepoli dello Spirito Santo. Consegnarsi a Maria è dire di sì in pieno alle parole di Cristo (Gv 19,26-27): “Donna ecco tuo figlio”; “Figlio ecco tua madre”. Consegnarsi a Maria è il contenuto preciso della consacrazione a Maria.

L’escatologia  
Il paradiso
Immediatamente dopo la morte si ha il giudizio particolare. Tale verità di fede non è espressa formalmente dalla Scrittura, come quella sul giudizio universale, ma tuttavia la si può ritrovare: (Sir 11,”26”) “E’ facile per il Signore nel giorno della morte rendere all’uomo secondo la sua condotta.”; (Lc 11,22) “Un giorno il povero morì e fu portato nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando all’inferno tra i tormenti…”; (Ap 14,13) “Le loro opere li seguono.”; (Ap 6,9) “Vidi sotto l’altare le anime di quelli che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa.”; (Ap 20,6) “Beati e santi quelli che prendono parte alla prima risurrezione.”; ora, non vi può essere retribuzione senza giudizio. Il giudizio particolare riguarda l’uomo come persona individua.
Cristo ci ha orientato, nella potenza dello Spirito Santo, verso l’abbraccio eterno di Dio vedendolo così come egli è (Gv 17,23; 1Gv 2,2; 1Cor 12,12; 2Cor 5,7). Le impazienti braccia di Dio stringeranno le nostre braccia impazienti di lui, e Dio si svelerà nel suo fulgore ineffabile. Tutto il mistero di Dio si svelerà a noi; i perché in scrutabili di tante situazioni di dolore avranno fulgida risposta. La partecipazione alla vita intratrinitaria, che palpita nella Chiesa pellegrinante (Gv 17,3), giunge al suo compimento glorioso nella visione beatifica della Trinità. In tale visione intuitiva, facciale, si attua la pienezza della fraternitas dei figli di Dio, il compimento di ogni aspirazione dell’amore fraterno. Ognuno, in cielo, vedrà la Trinità, e la Trinità presente in se stesso e negli altri.

La visione dell’Essenza divina è comune a tutti i beati, quindi quanto all’oggetto (Dio) tutti sono nella medesima condizione, tuttavia esistono diversità di gradi di beatitudine (cf. 2Cor 5,10; Ef 6,8).
Il grado di beatitudine non consiste soltanto nella diversità (in base al merito di ciascuno) di intensità nel vedere Dio, ma anche -fatto strettamente concomitante al primo- nella diversità di corrispondere alla comunicazione amorosa di Dio.
In cielo, ci dice il “Padre nostro”, si fa la volontà di Dio, e la volontà di Dio è che si ami lui e i fratelli; questo in cielo lo si fa perfettissimamente e l’amare è gioia, è beatitudine. Chi fa la volontà di Dio, qui, in terra, dove si cammina nella fede (2Cor 5,7), vive le primizie della beatitudine del cielo (cf. Mt5,1ss).

Il paradiso è essenzialmente questo, ma si deve anche parlare dell’esistenza di un luogo: è il cielo dove Cristo e la Vergine sono presenti. Là sono i beati e gli angeli. Questo cielo, questa celeste patria (Fil 3,20), questa Gerusalemme di lassù (Gal 4,26; Eb 12,22; Ap 3,12; 21,2), che è fuori di ogni nostra possibilità di immaginazione, non è una parte dei cieli astronomici, ma li domina, avendo in essi il pavimento splendido del suo essere.

Tutto il disegno della creazione si svelerà e si vedranno i prodigi di vita -animale- presenti nei mondi creati da Dio: in attesa di prendere possesso dei cieli nuovi e della nuova terra, che emergeranno dalla trasformazione finale di tutte le cose.

Il purgatorio
Per entrare nel gaudio di Dio bisogna comparire davanti a lui (Ef 5,27) “senza macchia né ruga o alcunché di simile”, cioè con una carità, che è vincolo della perfezione, viva e accesa. La carità (1Pt 4,8) “copre una moltitudine di peccati”, così che se la bruttura contratta con i peccati non viene annullata dalla carità nel cammino terreno, dovrà esserlo, sempre per mezzo della stessa, oltre i confini della morte.
Chi lascia la terra in questa situazione, nel giudizio particolare ha per un solo istante un raggio del “lumen gloriae”, in una comunicazione amorosissima di Dio. Questo infiamma l’anima di un amore accesissimo per Dio e nello stesso tempo l’infiamma del più acuto rimorso per non averlo amato come meritava e di non avere amato con generosità i fratelli. Le fiamme del purgatorio sono fiamme espiatrici d’amore e di rimorso: esse sono il fuoco purificatore.
Nel purgatorio si accende pure l’amore ai fratelli; si vede bene quanto si è negato loro con la mediocrità della vita e, nel rimorso salutare, si ripara esortando i fratelli, immersi nella purificazione, a vivere pienamente l’azione del fuoco dell’espiazione, e si prega per quelli che sono ancora in cammino sulla terra, ricevendo, per il vincolo della carità, suffragi dalla Chiesa pellegrinante.
La tradizione, considerando il purgatorio come luogo, parla della presenza di fuoco, il quale agisce sulle anime come fatto esterno. Si ha, così, un carcere di fuoco, che, però, ha la porta di uscita. Non è possibile dare una collocazione a questo luogo. Bisogna accontentarsi di un generico “in basso”, corrispondente all’idea di carcerazione e di pena.

L’inferno
Noi sappiamo dalle Scritture che coloro che si pongono contro Dio hanno come eredità l’inferno, ma non sappiamo chi ci va, perché non conosciamo che cosa possa essere accaduto nell’ultimo momento di vita in una coscienza; per questo occorrerebbe una speciale rivelazione di Dio. Possiamo pensare che probabilmente o molto probabilmente sarà andato all’inferno, ma non si ha la certezza, e infatti la Chiesa non ha mai “canonizzato” nessuno per l’inferno.
Però, riguardo alla sorte eterna di Giuda, la Scrittura presenta una serie di espressioni che formano un tutto stringente (Mt 26,24): “sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato”; (Gv 13,27): “dopo quel boccone Satana entrò in lui”; (Gv 13,30): “egli subito uscì” (se fosse diventato un ossesso si sarebbe comportato da ossesso e Gesù lo avrebbe liberato); (Gv 17,12): “conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione”; (At 1,20): “Infatti sta scritto nel libro dei salmi: la sua dimora diventi deserta, e nessuno vi abiti. Il suo incarico lo prenda un altro”.
Non sapendo chi va all’inferno si potrebbe concludere che non sappiamo se qualcuno è all’inferno. Ma questa conclusione logica trascura la Scrittura, che dice che persone all’inferno ci vanno. Dunque la conclusione logica è un’affermazione vuota.
L’unica posizione è quella di dire, nella non rassegnazione che diventa preghiera e penitenza per i peccatori, che sappiamo che persone vanno all’inferno, ma non sappiamo chi ci è andato.
Si deve evitare di creare la psicosi dell’inferno: questa non ha senso quando si considera che nessuno va all’inferno per caso, ma per libera scelta.
Nel giudizio, colui che ha rifiutato la misericordia di Dio, per un solo istante, riceve, in infimo grado, un raggio del lumen gloriae, per cui ha la visione dell’Essenza divina, ricevendo il terribile rifiuto di Dio. Dio non gli appare beatifico, come avrebbe voluto essere, ma terrorifico. Il dannato vorrebbe che Dio, visto nella sua potenza e bellezza, non lo rifiutasse, ma ciò senza alcuna volontà di cambiare se stesso; avendo esaurite le sue possibilità di cambiamento, vorrebbe, al contrario, una “resa” di Dio al suo peccato. Egli non vorrebbe andare all’inferno perché ben ne vede il danno, vorrebbe evitarlo bloccando la ratifica di Dio, ma non perché abbia un pentimento d’amore. Vorrebbe, sì, Dio - che ha visto per un istante - ma lo vorrebbe come Dio della stoltezza, dell’amore vuoto, mentre Dio mai potrà essere amore senza amore.
Il dannato vorrebbe che Dio entrasse in contraddizione con se stesso, da qui la forza con cui Dio ratifica la dannazione, che il peccatore ha scelto.
L’inferno è così perdita di Dio: desiderio di Dio e, nello stesso tempo, avversione totale a Dio.
L’odio vuole esercitare l’odio, questo costituisce l’orribile legame tra i dannati e nello stesso tempo la loro divisione tremenda. L’odio è il verme che non muore mai (Mc 9,48).
L’inferno è oppressione di Satana, senza attimo di sosta.
L’inferno inutile ribellione a Satana, senza attimo di sosta.
L’inferno è un abisso tenebroso (Lc 8,31; 2Pt 2,4; Ap 20,1-3), un carcere (Ap 20,7), uno stagno di fuoco dove niente è vita perché tutto è odio (Ap 19,20; 20,10), una Geenna al cui fuoco è eternamente vincolato chi, rifiutando Dio, si è fatto rifiuto (Mt 5,22; Gc 3,6).
L’inferno è un carcere di fuoco che non ha porta di uscita.
Come luogo lo si colloca “in basso” (“infernum”, vuol dire luogo sottostante), senza potere dire di più.  

L’apoteosi del ritorno del Signore        
Il ritorno del Signore avverrà dopo che tutte le nazioni saranno entrate a far parte della Chiesa (Mt 24,14), ultima nazione sarà Israele (Rm 11,25). Prima del ritorno del Signore i cristiani dovranno essere intensamente formati in Cristo. L’apostolo Pietro nella sua seconda lettera (3,9) dice che il giorno del Signore tarda a venire per dare modo ai fedeli, che già portavano il peso delle prime persecuzioni e defezioni, di essere veramente fermi in Cristo. Infatti, i momenti finali saranno segnati da eventi sconvolgenti che Gesù dipinge con termini di linguaggio apocalittico (Mt 24,29), avvisando che, per le iniquità del mondo, ci sarà un raffreddamento della carità in molti (At 24,12). Così i fedeli (cf. At 3,19; 2Pt 3,12) affrettano la venuta del Signore, cioè la loro piena liberazione e vittoria, con una piena vita in Cristo, capace di portare a Cristo tutta la terra.
Vieni Signore Gesù” dice la Chiesa mossa dallo Spirito (cf. 1Cor 16,22; Ap 22,20).

(CCC 670): “Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti”.
Le persecuzioni contro la Chiesa e l’azione di giustizia, che porrà fine alla presenza dell’uomo sulla terra, non estingueranno la presenza della Chiesa, poiché vi saranno tra i cristiani dei superstiti (1Ts 4,16; 1Cor 15,51); essi moriranno in un’estasi: quella dell’incontro con Dio, visto nella visione beatifica.
Il fatto della trasformazione dei superstiti è propriamente il “mistero” di cui Paolo scrive (cf. 1Cor 15,51). Mistero per l’apostolo, perché inerente al piano di Dio e non ancora insegnato nella catechesi ai fedeli.

I fedeli di Tessalonica e anche di Corinto erano orientati a pensare, dalle precedenti idee del paganesimo, che al ritorno di Cristo i vivi, i sopravvissuti alle ultime persecuzioni e alle catastrofi della fine del mondo, sarebbero andati con lui, senza morire, gloriosi in cielo, e a pensare che i morti non sarebbero risorti. Ne conseguiva che avevano un senso di sconforto pensando ai morti, e non sembrava alla fine giusto il privilegio dei superstiti, rispetto a quelli pur morti in Cristo. Paolo doveva perciò affermare la risurrezione dei morti in Cristo e come i superstiti non avrebbero avuto alcun privilegio su di loro. I vivi sarebbero stati trasformati in modo da essere come i risorti, e i morti in Cristo - primi nella risurrezione in obbedienza ad un ordine di convenienza (cf 1Cor 15,23) - sarebbero risorti prima della trasformazione dei superstiti.
Va notato che, nei due affreschi, ai Tessalonicesi e ai Corinzi, manca la risurrezione degli empi e il giudizio universale, che pur Paolo presentava (1Tess 1,10; 1Cor 5,5); ma l’Apostolo punta tutto il discorso a risolvere la difficoltà dei fedeli considerando solo i giusti. L’apostolo non descrive poi una visione avuta, ma presenta un affresco basato sulla (1Tess 5,15) parola del Signore, udita dagli apostoli e non ancora fissata nei Vangeli. L’affresco di Paolo è, in definitiva, come lui stesso denuncia, una parola di consolazione (1Tess 4,13).A conferma dell’agire pastorale dell’apostolo, si deve notare come egli non freddi l’attesa dei Tessalonicesi ad una imminente venuta del Signore, ma si metta pure lui, con loro in questa attesa, sottolineando, però, subito dopo (5,1) come nessuno conosca la data del “giorno del Signore”.

La trasformazione dei superstiti dice che qualcosa avverrà nei vivi prima di salire con Cristo nella Gerusalemme celeste. Paolo non parla di morte perché la morte avverrà per l’estasi dell’incontro con Dio: Dio non può uccidere i superstiti, è la visione beatifica di lui che li ucciderà. La trasformazione, non è dunque, solo la glorificazione, ma contiene in sé il passaggio morte-risurrezione-glorificazione.

L’apostolo Paolo nella seconda lettera a Timoteo (4,1) presenta come il Signore “verrà a giudicare i vivi e i morti”. I vivi e i morti comprendono i buoni e i cattivi, così Paolo non presenta affatto i superstiti (i vivi) e i morti in Cristo, ma tutti gli uomini. Del resto il giudizio universale avverrà dopo la risurrezione.
I pagani pensavano che i morti fossero completamente fuori da ogni possibilità di vera esistenza e perciò fuori dalla signoria di Cristo, ma ciò non è vero: essi risorgeranno e saranno giudicati da Cristo. La Chiesa ha introdotto l’espressione, che usa il semitico binomio di totalità, nel simbolo apostolico intendendo che Cristo ha la signoria su tutti gli uomini vivi e morti. L’espressione indica così semplicemente tutti gli uomini. Correntemente l’espressione del credo viene intesa nel senso che i vivi sono i giusti e i morti gli empi.

Solo per Maria, in ragione del suo essere Immacolata e del suo essersi mantenuta tale, non c’è stata la morte - un miracolo sostenne in vita Maria al momento dell’incontro con Dio nella visione beatifica; ma solo la glorificazione dl corpo reso, in tal modo, capace di resistere al giubilo dell’anima.
Si dirà che Cristo è morto e perciò era conveniente che anche Maria morisse, ma Cristo è morto in virtù di una violenza, non a causa del peccato di Adamo; e Maria non ha subito una morte per violenza (di certo non è esagerato dire che, se Dio non l’avesse sostenuta ai piedi della croce, sarebbe morta di dolore). Dunque, Maria sarebbe dovuta morire a causa del peccato originale, ma lei non era libera, fin dal primo istante del suo essere, da tale peccato?
Maria visse quello che gli uomini avrebbero vissuto se non ci fosse stato il peccato originale.

La fine del mondo avverrà quando gli uomini non vorranno più in nulla considerare Dio: Dio allora interverrà con il suo “basta”.
Si avrà un’alterazione cosmica, scientificamente, statisticamente, inspiegabile; le espressioni del Vangelo (Mt 24,29) rientrano, tuttavia, nel genere letterario apocalittico. Comparirà nel cielo, dice il Vangelo (Mt 24,30) il segno del Figlio dell’uomo, cioè la croce. Ciò conduce a dire che, alla fine del mondo, l’ultima Messa sarà celebrata da Cristo, senza specie eucaristiche e senza alcun altare. Nell’ultima Messa, partecipata dai superstiti in ogni parte del mondo, avverrà la morte per estasi. Le anime dei superstiti saranno radunate dagli angeli dai quattro venti (Mt 24,31; 24,40). Nell’inspiegabile alterazione comica che segnerà la fine del genere umano e di ogni segno di vita sulla terra (Sof 1,2), le genti vedranno la potenza del Cristo contro il quale hanno inutilmente combattuto: l’espressione usata da Gesù (Dn 7,13; Mt 24,30; Ap 14,14) “vedranno il figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria” indica questo. La stessa espressione Gesù la usò davanti al Sinedrio (Mt 26,64) per indicare la sovranità datagli dal Padre. Schiacciate nella loro superbia, le genti si batteranno il petto in un disperato gesto penitenziale (Mt 24,30), che non varrà a fermare il basta di Dio, ma che, tuttavia, salverà molti. E’ “il giorno del Signore”, nel quale egli sterminerà gli empi e libererà i giusti dalle persecuzioni degli empi.

La risurrezione, stando alle parole dell’apostolo Paolo, avverrebbe al momento stesso della fine del mondo, ma ciò presuppone che tutti quelli che moriranno nel tempo della fine saranno perfettamente purificati e che nessuno perciò debba andare in purgatorio,il che non è realisticamente pensabile. L’apostolo indubbiamente non si è soffermato su questa complessità. La risurrezione e il giudizio vanno così collocati in un tempo successivo alla fine del mondo, al termine del purgatorio. Non sarebbe giustizia verso le moltitudini che hanno fatto il purgatorio che Dio non lo facesse fare agli ultimi. Del resto il vangelo di Matteo e l’Apocalisse presentano in due quadri distinti la fine del mondo e la risurrezione col giudizio universale (Mt 24,29-30; 25,31ss; Ap 20,7-15). Certo, però, l’apostolo ci dice che “il giorno del Signore” è uno solo. In esso si avrà la fine del mondo, la risurrezione della carne e il giudizio universale.

Il giorno del Signore” non indica “un giorno”, ma solo il momento del trionfo del Signore; appunto, “il giorno del Signore”.
Nell’ambito del “giorno del Signore”, dopo la fine del genere umano sulla terra, si avrà il ritorno del Signore per la risurrezione della carne e il giudizio universale: tutti i risorti vedranno il Cristo glorioso, re e giudice, che farà crollare totalmente il muro delle apparenze, già dominatore sulla terra.
Il vangelo di Matteo (25,32) dice che saranno riunite davanti a lui tutte le genti e che Cristo separerà le pecore dai capri: è l’immagine del giudizio. Redenti e dannati si presenteranno nel primo momento mescolati, poiché risorgeranno là dove sono morti. Ovviamente, il fatto del luogo serve a rendere il realismo della risurrezione: i corpi ridotti, dai secoli o dal fuoco o dagli animali, in polvere non sono riconducibili ad un luogo preciso.

La risurrezione potrà avvenire non contemporaneamente per tutti, ma per moltitudini.
Tutti gli uomini potranno vedere Cristo in alto nel cielo, dal momento che Dio, con la sua azione, sa fare infinitamente meglio delle più industriose e megalitiche strutture elettroniche. Il giudizio avverrà, data l’immensità del fatto, non verbalmente, ma su comunicazione interiore attraverso l’azione di Dio. I giusti saranno posti alla destra di Cristo, gli empi alla sua sinistra.
Destra” e “sinistra” si possono pensare collocate sopra la terra nello spazio ai lati di Cristo: evidentemente per Dio non ci saranno problemi.

Il giudizio universale non sarà una replica del giudizio particolare, ma lo completerà, nell’aspetto che il dannato è parte del genere umano. Poi, per la risurrezione, il dannato riavrà il corpo, quindi, la condanna lo raggiungerà anche quanto al corpo.
Nel cielo i beati sanno già quelli che sono dannati, ma sarà nella risurrezione che si conoscerà compiutamente tutto l’intreccio del bene e del male - fatti distinti e contrapposti -; ci sarà anche la meraviglia di vedere premiato chi era stato pensato empio e condannato chi era stato pensato giusto: meraviglia perché allora vi sarà nuovamente la percezione nell’integrità della natura umana, fatta di anima e di corpo.
I fedeli parteciperanno all’azione del giudizio universale (Mt 12,42; 19,28; 1Cor 6,2; Ap 20,4); giudicheranno anche gli angeli (1Cor 6,3; Gd 5-6).
I risorti in Cristo saliranno con lui nel cielo (1Ts 4,17). I dannati andranno anche col corpo nel fuoco eterno. Mt 3,12; 5,22; 5,29; 10,28; 18,9; 18,29; 25,41;Lc 16,23; Eb 10,27; Gc 3,6; Gd 7; Ap 20,14; 21,8).
Dopo il giudizio l’universo conoscerà un’immane conflagrazione (2Pt 3,10), che segnerà la fine della caducità alla quale è stato assoggettato per la colpa di Adamo (Rm 8,20). Dalla catastrofe dell’universo, emergerà (2Pt 3,13; Ap 21,1) la forma gloriosa dei cieli e terra nuova, così che anche tutto l’universo entrerà nella gloria dei figli di Dio (Rm 8,21).
Cristo infine consegnerà il Regno a Dio Padre (1Cor 15,24) e i risorti in Cristo scenderanno a prendere possesso dei cieli nuovi e della terra nuova (Ap 21,2).