Casa Renoir, luogo di idee illuministe
Pierre Auguste Renoir è nato a Limoges il 25 febbraio 1841 da una famiglia povera. Il padre,
Léonard Renoir, faceva il sarto, la madre, Marguerite Merlet, era un’operaia tessile; era il quarto di cinque figli. La famiglia era cristiana e la Chiesa in Francia non aveva grossi contrasti con
Louis-Philippe d’Orleans ultimo re di Francia. Pierre Auguste Renoir ebbe l’iniziazione cristiana cattolica, e quindi acquisì il carattere cristiano.
La famiglia, alla ricerca di maggiori entrate, si trasferì nel 1845 a Parigi, non molto distante dal museo del
Louvre.
Che le idee illuministe e rivoluzionarie fossero ben conosciute in casa
Renoir ci è dato saperlo dalla frequentazione di un anziano (circa 82 anni: 1845) boia (bourreau), che si era distinto al tempo del Terrore (1793 - 1794) quale braccio destro del celebre bourreau
Charles-Henri Sanson, facente parte della dinastia dei Sanson, ufficiali esecutori delle sentenze di morte.
Quell’anziano bourreau dai capelli bianchi piuttosto lunghi, curato nel parlare e nella persona, tanto aveva da dire poiché testimone singolare di un trapasso d’epoca. Poteva parlare delle mode di prima, della monarchia, dell’assolutismo, delle belle dame incipriate, e tanto, tanto altro, compresa la ghigliottina. Poteva dire di avere incontrato
Voltaire (pseudonimo di
François-Marie Arouet), Benjamin Franklin, allora presente a Parigi,
Amadeus Mozart e tanti altri. Molto raccontava del passato furore rivoluzionario, mentre sorseggiava una tazza di caffè, offerto come di solito in casa
Renoir. Il giovane
Pierre-Auguste tanto venne a sapere di ciò che era prima la Francia e delle idee della Rivoluzione che avevano travolto ciò che era ormai il passato.
Pierre-Auguste non poté proprio sottarsi all’onda ideologica dell’illuminismo, al clima di idee prevalenti a Parigi. La sua identità cristiana così venne ben presto messa da parte, anzi rimossa.
La scelta della pittura
L’ottimismo dominava pensando stabile e prospero il futuro, poiché i mali si credevano individuati nelle ottusità e cancrene sociali dell’ancien regime, comprese le religioni.
Pierre-Auguste Renoir nel 1848, all’età di sette anni, cominciò a frequentare le elementari presso i Fratelli delle scuole cristiane, fondati nel 1680 da
san Giovanni Battista de La Salle. I Fratelli erano laici con voti semplici, e accoglievano specialmente i ragazzi più poveri. Con ciò non si deve concludere che in casa
Renoir ci fosse fervente vita cristiana, ma piuttosto il pensiero illuminista che etichettava il cristianesimo come una via morale per il popolo, inferiore, perciò, alle linee etiche date dalla ragione e dalla convergenza collettiva. Le scuole dei Fratelli per casa
Renoir erano, più che altro, l’opportunità di non avere troppi oneri finanziari.
A scuola gli insegnanti notarono la sua bella voce e lo volevano indirizzare al canto, facendogli incontrare il compositore
Charles Gounod, che gli diede lezioni di canto con la prospettiva di farlo entrare nel coro dell’Opéra national de Paris.
Pierre-Auguste però si trovava bene non quando cantava, ma quando disegnava. Nel disegno aveva trovato la sua individualità. Disegnava usando i gessetti del padre sarto, poi con matite colorate, che gli vennero acquistate. Disegnava tante cose, si ricordano in particolare disegni di gatti e cani. Questo nelle giornate piovose dove non poteva correre e giocare con gli amici nelle viuzze. Da dove gli veniva questa inclinazione al disegno, che divenne il segno forte della sua vita? Certamente frequentando già da fanciullo il vicino museo del
Louvre, le cui opere di pittura lo incantavano.
Il giovane Renoir terminate le scuole a 13 anni, scelse decisamente, invece del canto, il disegno, la pittura, diventando decoratore in una fabbrica di ceramiche. Cominciò pure (1854) a frequentare i corsi serali dell’Ecole de Dessin et Art decoratifs.
Quando Pierre-Auguste aveva 17 anni (1858) la fabbrica di ceramiche dovette chiudere l’attività per dissesto finanziario.
Pierre-Auguste non fece alcun cambio di linea, mettendosi a dipingere stoffa per ventagli, e con ciò faceva qualche soldarello. Poi nel 1862 si iscrisse all’Ecole de Beaux-Arts.
Parigi verso la Belle Époque
Tutto l’impeto rivoluzionario non era proprio finito a Parigi perché di rivoluzioni ce ne furono ancora, come un seguito della
Prima rivoluzione (1789 - 1799), che diede vita alla Prima repubblica. Così ci fu una
Seconda rivoluzione nel 1830, che ebbe l’esito di portare al potere il
re Louis-Philippe d’Orleans (1830 - 1848); poi ci fu una
Terza rivoluzione nel 1848, che costrinse Louis-Philippe all’esilio in Inghilterra. Questa rivoluzione fu soffocata brutalmente dal Governo repubblicano della Seconda
repubblica, a carattere conservatore. Poi l’istaurarsi (18 marzo - 28 maggio 1871) di un governo popolare rivoluzionario e egualitario, che venne subito soffocato con l’assedio di Parigi da parte delle forze militari della Terza
repubblica costituitasi con le elezioni del febbraio del 1871, vinte da una maggioranza monarchica, quindi anti rivoluzionaria. Antirivoluzionaria, ma non per questo anti illuminista.
Anche l’urbanistica della città di Parigi non intendeva fermarsi, poiché dal 1853 si diede il via a modificare la sua configurazione fatta di viuzze sulle quali si affacciavano le case, che avevano la caratteristica di affacciarsi a spazi verdi interni. Iniziarono a comparire i grandiosi
boulevard giustificati dall’aumento effettivo della popolazione, nonché maggiore attenzione all’igiene complessivo della città, ma in fondo si cercava
la grandeur. I lavori durarono oltre 18 anni, cioè dopo la fine della guerra Franco-Prussiana (1871).
Renoir personalmente ebbe nostalgia delle vecchie viuzze di Parigi, con i suoi orti interni e non gli si può dare torto.
La corsa verso la bell’epoche era lanciata. Segno significativo ne fu la
Vie Lumiere, dove nel 1871 la luce a gas era stata sostituita dall’elettricità. Parigi era diventata così la
Città della luce.
La scelta della pittura impressionista
Nel 1862 Renoir entrò come aiutante nell’atelier di Charles Gleyre. Fu un tempo molto utile perché nell’atelier, centro di incontri, poté conoscere
Claude Monet, Alfred Sisley, Federic Barille, tutti pittori che miravano a rinnovare la pittura, distaccandola da quella accademica rivolta a celebrare eventi e personaggi della storia, nonché soggetti mitologici. Gli accademici avevano un disegno ben definito, connesso a una idealizzazione celebrativa degli eventi storici e dei personaggi. Tale pittura accademica era intesa e percepita come al servizio dello
status quo conservatore.
Distaccato dalla linea accademica, Renoir non diede mai motivazioni politiche alla sua pittura, pur dovendole avere. Le ragioni della scelta dell’impressionismo non furono di contrapposizione, ma di riflessione su ciò che significava per la pittura l’avvento della fotografia, poiché tale invenzione toglieva alla pittura l’onere pieno di rappresentare il reale, mentre le rimaneva come specifico il colore e la forza espressiva della presentazione delle cose e delle realtà umane
impressionanti il pittore.
Il gruppo che seguiva questa nuova visione della pittura uscì dal chiuso degli
atelier per un incontro con la natura, realtà connaturale all’uomo. Non era estraneo in questo l’influsso del mito del
bon sauvage di Rousseau. Nella natura le sovrastrutture coercitive di una società piena di errori erano lontane e l’uomo diventava migliore, come appunto il
bon sauvage.
La scelta della natura, fuori dalla città, diede vita alla pittura en plein air, con cavalletto portatile e sgabello, ombrellone, tavolozza, pennelli e tubetti di colore, che nel frattempo erano comparsi sul mercato.
Se Renoir, al pari dei suoi amici pittori, compiva una rottura con lo stile accademico, non per questo arrivava a rinnegare il valore della tradizione pittorica, rimanendo sempre incantato dalle opere del
Louvre.
Nel 1864 Renoir sostenne gli esami presso l'Académie des beaux-arts di Parigi, proprio quella che sosteneva lo stile accademico, ma era una condizione per potere essere pubblicamente un pittore.
Renoir ancora economicamente in difficoltà trovò ospitalità presso l’atelier di
Federic Bazille. Nel contempo frequentò il Café Guerbois, ritrovo di artisti e letterati. In questo tempo il giovane
Renoir decisamente divenne un
bohémien, con vita d’artista, spensierata e circondata dal 1866 dall’amour di
Lise Tréhot, una modella, che egli ritrasse in più di 20 quadri.
Tutto cambiò (1970) con la chiamata alle armi nella guerra Franco-Prussiana, quale corazziere addestratore di cavalli.
Terminata la guerra e nella tempesta creata dal governo rivoluzionario della Comune di Parigi (1871)
Renoir ritornò alla sua vita di prima con
Lise Tréhot, ma la giovane nel 1872 lo lasciò, poiché disillusa del giovane pittore, che evadeva di continuo la decisione di sposarla.
Lise Tréhot qualche mese dopo averlo lasciato sposò un giovane architetto e mai più vide
Renoir: un duro colpo per l’orgoglio del giovane pittore.
Intanto il gruppo di amici innovatori pensò di organizzare le vendite dei quadri dando il via al progetto (1873) della
Socyeté anonyme des artes peintre, sculpteurs, graveurs (incisori), con l’intento di costituire dei fondi per allestire mostre di vendita.
La prima mostra (1874) venne fatta nei locali del fotografo Felix Nadar. La critica chiamò, in questa occasione, la nuova tendenza pittorica
impressionista. Il confronto con la fotografia - i locali di
Felix Nadar lo indicavano molto bene - sottolineava l’indirizzo pittorico degli espositori, che era puntare sulle espressioni colorate dei volumi sotto la luce del sole, dei paesaggi,
impressionanti l’occhio e quindi filtrati emotivamente e intellettualmente per essere tradotti col pennello sulla tela. Le pennellate erano veloci e sottili con colori puri; pochi quelli costruiti; tutti accostati in modo da tale da comporre, visti a distanza, degli insiemi luminosi e vibranti.
Lo schieramento degli accademici riuscì a far fallire la mostra, ma non ad arrendere
Renoir e gli altri.
Renoir, ancora economicamente in difficoltà, si dedicò alla ritrattistica ottenendo un buon successo, tanto che con i ricavati riuscì ad acquistare nel 1975 una casa a
Montmatre, luogo celebre del ritrovo parigino degli artisti.
La sfida contro le critiche degli accademici Renoir la lanciò nel 1876 con il dipinto
Le Bal du moulin de la Galette (176,5 x 131,5 cm). Un’opera preparata accuratamente risolvendo l’impossibilità di un
plain air continuato con l’allestimento di uno studiolo accanto al
Moulen de la Galette. Il cavalletto e la tela sarebbero usciti dallo studiolo ogni giorno e posizionati nella scena da riprendere, che, ovviamente, mutava continuamente nel dinamismo del ballo e della luce e perciò tutto doveva essere fissato in più momenti con bozzetti rapidi e approssimativi, per poi passare costruire l’insieme del quadro.
Renoir non usò affatto la fotografia, ma l’aveva in mente. Voleva far vedere che la nuova tendenza pittorica era capace di grandi azioni e non soltanto di paesaggi.
Il quadrò riuscì e fu molto apprezzato pur con la critica che le figure erano poco definite (Elémire Zolla).
Renoir giudicò la critica pertinente e ne tenne conto nel 1880 nel dipinto
Le Déjeuner des canotiers (172,5 x 129,5 cm), dove si avverte una maggiore definizione delle persone, utile per definire i loro sentimenti. La definizione venne fatta da piccole pennellate di colori accesi, in contrasto cromatico, ma pur unitario.
La joie de vivre Renoir non diventò impressionista per avere incontrato Claude Monet, adottando il suo quadro teorico sull’impressionismo, ma lo divenne per suo personale percorso, senza disquisire sulla sua pittura, se non dicendo che dipingere lo
divertiva, cioè per lui il dipingere era joie de vivre. Era la pittura
en plein air, all’aperto, era l’essere dentro i paesaggi che dipingeva, sotto la luce del sole, che dava il via ai colori, con tante sfumature nelle zone d’ombra e al variare della sua intensità. La natura è bella e invitante, senza misura più bella dei decorati palazzi del potere, della nobiltà, dell’alta borghesia, oscuramente ed egoisticamente pensati come paradisi, ma in realtà deludenti perché abitati dall’egoismo, dalle rivalità, dalle congiure.
Tutti sanno che cos’è la gioia di vivere, ma per Renoir
era
essenza di vita, integrazione con la natura, rifugio dai dolori della vita, slancio verso un sogno di ritorno al paradisiaco, densità di comunicazione con gli altri. Una
joie de vivre non conseguente all’aver trovato le ragioni profonde della vita e viverle, ma maggiorata come fuga dalla tristezza e indicazione dell’accesso a una nuova vita sociale secondo le idee illuministe di Parigi. Questo ad oltranza, anche se affetto dai dolori di un‘artrite reumatoide, che dall’età di 51 anni (1892) entrarono sempre più gravemente nella sua vita.
Renoir non volle abitare nella tristezza dello sguardo ai mali sociali per denunciarli come
Victor Ugo o Guy de Maupassant, ma all’opposto volle abitare nella sua
joie de vivre.
Renoir vedeva le cose create dall’unico Creatore, ma al modo degli
illuministi (deisti) pensava che il Creatore dopo averle create se ne sia disinteressato, così che il gestore ne risultava solo l’uomo con l’orientamento della sua sola ragione, addirittura innalzata (novembre del 1793) in pieno furore rivoluzionario a dea ragione nel tempio profanato di
Notre Dame. Poi ci si rese conto della rozzezza e si preferì parlare, con
Maximilien de Robespierre (dicembre 1793), di culto all’Essere Supremo, introducendo il
deismo, come filosofia di stato. Una conseguenza filosofica del
deismo era che l’atto creativo di Dio ha dato alle cose anche un essere “in proprio”, cioè senza relazione con Dio che le facciano
sussistere nell’essere. La relazione con Dio si è esaurita nell’atto creatore, poiché Dio non si cura più di quanto ha creato.
Il deista non è per nulla un panteista, ma piuttosto uno strano
divinizzatore del creato; strano perché mentre detesta ogni idolatria, come superstizione, non se ne separa quanto allo sguardo sul creato.
Il deista non è neppure un aderente alla concezione dell’eterno ritorno, ritrovabile nell’induismo e nel buddismo o, modernamente nell’oscura visione dell’eterno ritorno all’uguale, cioè all’uguale punto di partenza, come in
Friedrich Nietzsche. Per il deista Dio è distinto dalla creazione e la creazione non ha nessuna forza immanente a se stessa per riavviare un nuovo ciclo, poiché essa è segnata da un divenire ineluttabile,
senza ritorno. Dio ha creato così il cosmo come se rimanesse in un eterno presente, mentre nello stesso tempo, contraddicendo il pensiero deista, è compenetrato dal divenire.
La posizione deista di Renoir era sicuramente abbozzata, ma in concreto esisteva nella sua
joie de vivre. La sua joie nasceva indubbiamente dal dipingere, era indubbiamente un argine eroico al dolore, ma aveva
un oltre percepito da chi lo osservava come misterioso.
Una zona di mistero
La conversazione di Renoir, ci viene detto, era brillante, aneddotica, allegra, tranquilla, piacevole, pronta a sentenze di saggezza, di spirito di vicinanza agli altri, ma, pur condiscendente, nei momenti peggiori arrivava proprio a stizzirsi. Parlava spesso con ironia, mostrando il lato divertente delle cose, sempre con affettuosa e buona simpatia. I suoi occhi trasmettevano un senso di allegria e gioia, ma pur con ciò si avvertiva che in lui c’era una zona profonda di mistero.
L’interpretazione più facile è quella di riferirsi al suo essere artista, al suo continuo e forte legame con la tavolozza e il pennello. Legame forte, ancora più forte dell’amour di donna.
Ma si può e si deve andare oltre l’artista Renoir per giungere all’uomo Renoir, ed è qui che si trova la profonda radice di quella zona di mistero: una solitudine impensabile all’occhio superficiale. Dio creatore, secondo il deismo, non si occupava di lui, non aveva pensiero per lui. Sembrava libertà di agire secondo se stesso, eppure il se stesso sentiva solitudine, quella di non avere amore da Dio, che Dio non si occupasse di lui. Renoir conviveva con il senso di libertà dato dal pensiero che Dio non pensi a lui, e con ciò, lo abbia lasciato libero, e con il rattristarsi proprio perché non pensa a lui, che non abbia nessuna indicazione paterna su di lui. La sua joie de vivre, abbracciata sistematicamente, solo negli intervalli creatori della pittura riusciva a narcotizzare questo conflitto.
Le Déjeuner des canotiers
Le Déjeuner des canotiers è l’indiscusso capolavoro di
Renoir. Il soggetto è una riunione di amici e di conoscenti nella veranda del ristorante la
Maison Fournaise, nell’isolotto di Croissy, una prominenza lunga solo 140 metri che divide in due il fiume. L’isolotto si trova a 20 km a ovest di Parigi, ed era raggiungibile a piedi a partire dalla vicina stazione ferroviaria e percorrendo un ponte sul braccio destro della Senna. L’isolotto era anche un punto di approdo delle barche sportive. È un giorno d’estate del 1880.
Chi organizzò l’incontro fu il barone Raul Barbie. Le persone convenute sulla veranda del ristorante non erano dei modelli da mettere in posa, ma gente che voleva passare un momento di spensieratezza. E con tutta ovvietà non erano persone da mettere in posa così insieme, poiché mai avrebbero accettato. Tanto per dire c’era lo scrittore
Guy de Maupassant, il ministro dell’interno Pierre Lestringuez, l’artista, di famiglia ricca,
Gustave Caillebotte, l’altolocato Charles Ephroussì, il noto poeta simbolista
Jules Laforgue, l’attrice della Comédie-Française Jeanne Samary, e si può aggiungere l’italiano
Antonio Maggiolo, giornalista del giornale satirico Le Triboulet.
Personaggi meno altolocati, ma che colpiscono sono la ventenne
Aline Charigot, la sarta e modella che diventerà la moglie di
Renoir, la modella
Angele Legault, il viveur Paul Lhote. Ovviamente, Renoir si è alzato dal tavolo per tracciare rapidi bozzetti
en plein aire. Come persone aggiunte, c’è il proprietario del locale
Alphonse Fournaise e la disinvolta figlia, Alphonsine Fornaise.
Tutto è rivolto a definire un’atmosfera di gioia, di abbondanza ristoratrice, nella luce filtrata dal tendone a righe rosse della veranda, nel complice venticello che lievemente lo scuote, nonché il paesaggio con il fiume.
Il quadro non presenta l’atto del déjeuner, che comunemente si traduce, erroneamente, con colazione. Colazione in francese è
le petit-déjeuner, ma il quadro tratta del déjeuner des canotiers, cioè di sportivi, forse la tipica offerta della
Maison Fournaise, frequentata dagli appassionati di canottaggio lungo la Senna.
Il déjeuner lasciò sul tavolo degli avanzi: uva, mele, pere, pane bianco, formaggio, bottiglie di vino. Sul tavolo bicchieri di diversa foggia, e anche dei bicchierini per il liquore di una curiosa botticella. Tutto è ormai senza l’ordinata diligenza iniziale.
Al déjeuner des canotiers seguì un tempo dove ciascuno trovò liberamente il suo partner gratificante, ed è questo che
Renoir ritrasse.
Potremmo fermarci qui e dire che Renoir ha ottenuto l’effetto di gioia desiderato, cioè quello della
joie de vivre, perseguita nella Belle Époque, ma pure c’è qualcosa che fa pensare, che parla di segreta insoddisfazione pur in mezzo a tanta cortese e svagata compagnia.
C’è anche l’amour nella veranda della Maison Fournaise, la poesia dell’amour, ma pare che non basti, anzi l’amour può non esserci, o può diventare desiderio di carne come avviene nell’assalto alla povera
Jeanne Samary, da parte dell’ipnotico Pierre Lestringuez e del libertino
Paul Lhote. C’è anche malinconia palese: quella di Guy de Maupassant, che guarda lontano senza alcuna relazione con i vicini.
Il viaggio in Italia e la successiva svolta nella sua pittura
Renoir, successivamente al quadro Le Déjeuner des canotiers, fece un viaggio ad Algeri (1880) dove dipinse la tela
Le Jardin d’Essai. Poi decise un viaggio in Italia, dall’autunno del 1881 al gennaio del 1882.
Rimarrà stupito a Venezia, nell’atmosfera della laguna, dai colori del Tiepolo, del Tiziano, del Veronese. Rimarrà in lunga sosta davanti alle opere di Raffaello nella Galleria di palazzo Pitti a Firenze e negli affreschi di Villa Farnesina a Roma. Passò a Napoli ammirando, nel Museo Archeologico di Napoli, gli antichi affreschi pompeiani rimanendo meravigliato per la loro luminosità, vivacità di colore, la loro agile e sicura pennellata.
Molto simpatico fu il suo soggiorno in Calabria dove poté vedere la semplicità, l’immediatezza della popolazione in un ambiente di stupendi paesaggi.
Renoir raccontò al figlio Jean, molti anni dopo, che gli era stato chiesto di restaurare dei dipinti di una Chiesa, della quale non nominò il paese, intaccati dall’umidità. Disse di avere usato i colori di un muratore del posto, ma che pensava che al presente potevano non esserci più di fronte all’umidità. Così ci riferisce il figlio
Jean: “In un villaggio di montagna Renoir rifece gli affreschi alla chiesa distrutti dall’umidità:
‹Non mi intendevo molto di affreschi; trovai dal muratore un po’ di polveri colorate. Chissà se hanno retto›”. Da questo ricordo sommario si può dedurre che non dovette essere un grande intervento, e che quello che nella chiesa di Capistrano si crede essere il restauro, oltre a vaghe assonanze con
Renoir, non presenta nessuna documentazione né presso il Comune né presso la Chiesa, e questo è decisivo perché chiunque non avrebbe trascurato di documentare un evento di tale importanza. È probabile che qualche pittore di Terra Calabra volle incontrare
Renoir, eseguendo poi lui, arricchito di conoscenza, il restauro della chiesa di Capistrano.
Ritornato a Parigi Renoir optò per una pennellata meno impressionista, ritenne di essere già arrivato “al punto estremo dell’impressionismo” (1883), cioè di non avere più una spinta creativa, ritrovandola nell’eco delle luminose pitture italiane rinascimentali, specie di Raffaello. Non abbandonò la pittura di paesaggio,
en plain aire, finché la salute glielo permise, non trascurando il tema pittorico delle bagnanti nel fiume o sotto il sole, con sfondi di cortine di alberi. Il tema del nudo, che è una sfida tecnica per un artista e non altro, perché ogni artista dirà sempre che il nudo di per sé è casto, gli dava lo spunto per una immersione nel benessere di una natura divinizzata. Tutto rendeva questo effetto: i colori vivi della luce del sole, il disegno costruito, ben composto, non su di un disegno tracciato sulla tela, ma ottenuto con piccole pennellate.
Dunque, non proprio un omaggio all’Académie des beaux arts. Il pennello di
Renoir cominciò ad imprimere sulla tela una sorta di eternizzazione della natura.
Il vertice creativo di Renoir, per quanto si dica, è prima della fase
post italiana alla quale si riconosce di avere aperto la strada al neoclassicismo dei primi del 900.
Il declino delle forze e le sue
ultime parole Renoir nel 1892 fu assalito
da artrite deformante, per tale motivo nel 1896 acquistò una casa in
campagna a Essoyes, un ameno paesello sul fiume Ource,
dove la moglie era nata. A Essoyes,Renoir vi passava
l’estate dipingendo. Poi nel 1907 acquistò una tenuta, la Domaine
des Collettes, a Cagnes-sur-Mare con vista sul
Mediterraneo, dove vi restò fino alla fine dei suoi giorni. Fragile di
salute e magrissimo, nervoso, ebbe nel 1910 una recrudescenza
dell’artrite reumatoide che gli paralizzò le gambe, sua infermiera fu la
moglie Aline Charigot (nata il 23 maggio 1859), sua modella,
dalla quale nel 1885 aveva avuto un figlio naturale, Pierre Renoir.
Aline, dal carattere forte e tenace, non diede tregua a
Renoir, che la sposò con rito civile - l’unico riconosciuto
dallo Stato - nel 1890,
avendo poi da lei altri due figli: Jean Renoir (1894) e
Claude Renoir (1901). Aline Charigot, aveva un
carattere forte, era intelligente, amante dell’arte, sapeva suonare il
pianoforte, e pur con ciò amante dell’intimità domestica, e lontana
dalle esuberanze era accorta economa dei proventi dell’attività del
marito. Aline fu una grande fortuna per Renoir. Renoir, da quanto riferisce il figlio Jean Renoir nei
suoi ricordi (Renoir, mio padre),
fu fedele alla moglie, contrariamente a chi disse e dice il contrario, e
quando Aline morì (27 giugno 1915) Renoir provò un
grande dolore. Ma a convincersi della fedeltà di Renoir basta pensare
che tra lui e la bella Aline c’erano 20 anni di differenza. Si aggiunga
che ben presto subentrarono per Renoir oir le prime avvisaglie di artrite deformante, che implacabile
lo condusse in una sedia a rotelle. Renoir a
Cagnes-sur-Mare si fece realizzare una serra a vetri in mezzo agli
olivi, e così protetto dal vento che saliva dal mare, era come en
plain air. Renoir giunse a completare agli inizi del
1919 il quadro Les baigneuses (Musée d'Orsay di
Parigi). Poi oltre l’impressionante artrite deformante e il
dimagrimento a pelle e ossa, si aggiunse una infezione
polmonare Il divenire si imponeva ineluttabile
su di lui, e la sua joie de vivre, eroicamente stretta a sé nel
segno della tavolozza e del pennello, accennava a lasciargli la mano,
lasciandolo nella sua verità di uomo ormai alla fine. L’ultimo giorno di
vita volle dipingere delle anemoni che gli vennero raccolte. Il tema
delle anemoni l’aveva svolto più volte, non era un tema ardito. A quadro
avanzato si fermò per parecchio tempo a guardarlo. Poi con un gesto
chiese che gli porgessero di nuovo il pennello. Nel mentre, disse alcune
parole a bassissima voce. La grand-Luiseise (la cuoca) le intese
così: “Credo di incominciare a capirci qualcosa”; mentre
l’infermiera le intese diversamente: “Oggi, ho imparato qualcosa”.
Renoir aveva chiesto il pennello per una reazione di vita,
ma la joie de vivre nel dipingere, non era più capace di
trascinarlo. La natura, che gli era parsa divina attraverso il suo
occhio di deista, manifestava l’amara realtà della morte. Ora
c’era soltanto l’uomo, non più il pittore, l’artista famoso. so. Il
figlio, Jean Renoir, che in quel momento era assente, appena
giunto in serata venne a sapere le parole del padre dalla
grand-Luise (la
cuoca) e dall’infermiera. Cosa aveva capito Renoir che
prima non capiva? Cosa aveva imparato che prima non aveva imparato? Una
nuova soluzione pittorica? Difficile che avesse affidato alla cuoca e
all’infermiera una sua soluzione pittorica, per di più in corso d’opera
e in un tema molto semplice per lui. Con tutta probabilità invece disse
qualcosa della sua esistenza, avvertendo che ormai era al limite delle
sue possibilità di vita, tanto che lo dovettero stendere sul letto e
chiamare il medico. Forse aveva capito l’essenza del pensiero di
Blaise Pascal che più volte aveva citato in questo modo: “C’è
una sola cosa che interessa l’uomo: l’uomo”. L’uomo con tutte le
sue insopprimibili domande sulla vita, sul presente, sul futuro, sul suo
rapporto con Dio e con il creato. Il deismo aveva un lato
debole, molto debole: il divenire delle cose. Dove è orientato il
creato, quale il suo fine conclusivo? Ora a Renoir il divenire
si presentava in tutta la sua ineluttabile forza. Poco dopo si ruppe
un vaso sanguigno interno ai polmoni provocandogli un rantolo
spasimante. Mori poco dopo, il 3 dicembre 1919, durante la notte.
Resta il mistero di quelle parole, sul loro significato: “Credo di
incominciare a capirci qualcosa”; “Oggi, ho imparato qualcosa”.
Posso avanzare l’ipotesi che ora capiva che la joie de vivre,
con tavolozza, colori e pennello, non era una compagna perenne, come
aveva sempre pensato e nella quale si era sempre rifugiato, anche contro
il dolore. Renoir era stato raggiunto in pieno dall’onda
scristianizzante suscitata dalla Rivoluzione, che, trionfante, si
proponeva di estendersi oltre i confini della Francia. In quale misura
Renoir fu travolto non lo possiamo sapere, ma lo fu. Dalla
spinta di quell’onda non aveva potuto scappare perché non ebbe
testimonianze cristiane efficaci, e contatti con capacità culturali atte
a sostenere l’impeto erudito degli illuministi. Di ciò non se
ne ha dubbio, poiché nella prefazione alla stampa del libro di Cennino
Cennini (artista toscano del 1400) scritta da lui nel 1910 si legge
questo passo: “Se il cristianesimo avesse trionfato nella sua forma
primitiva, non avremmo avuto né belle cattedrali, né sculture, né
pitture. Fortunatamente gli dei egizi e greci non erano tutti morti e
sono loro che, introducendosi nella nuova religione, hanno salvato la
bellezza”. Dunque all’origine un uomo (Gesù) con idee sociali
attraenti, ma senza speranza di affermazione culturale; poi le idee
dell’uomo Gesù vennero impinguate dagli dei greci ed egizi,
tanto da giungere alla bellezza dell’arte cristiana. Un discorso
sballato, storicamente del tutto impresentabile, ma, appunto, l’onda
scristianizzante aveva esercitato tutto il suo impatto sull’uomo
Renoir; a lui rimaneva sempre il rifugio di dipingere, la sua
joie de vivre. Qui bisogna affermare con forza che Dio è giusto
giudice, che sa vedere la responsabilità notevolmente minore di coloro,
che pur non volendo, furono travolti dall’onda scristianizzante.
Penso che tra questi ci fu Renoir, considerando che da
ragazzino, senza risorse culturali e senza formate capacità critiche,
ascoltò le narrazioni dell’anziano bourreau del Terrore, dal
fare distinto, curato e accattivante, con libero ingresso in casa
Renoir.
Fonti consultate: Jean Renoir “Renoir, mio padre”, Adelphi Editore, 2015, Milano.
https://it.wikipedia.org/wiki/Pierre-Auguste_Renoir
https://www.bergamonews.it/2018/02/25/pierre-auguste-renoir-pittore-della-joie-de-vivre/276858/#:~:text=A%20differenza%20degli%20impressionisti%2C%20soliti,ma%20sono%20i%20ritratti%20a
https://www.docsity.com/it/docs/pierre-auguste-renoir-1/793438/
https://www.metmuseum.org/essays/impressionism-art-and-modernity
https://www.repubblica.it/speciali/arte/gallerie/2015/12/03/foto/la_felicita_nel_dipingere_pierre-auguste_renoir_il_pittore_della_gioia-128706003/1/
https://stilearte.it/aline-la-moglie-di-renoir-passione-sentimento-e-dolcezza-della-piccola-grande-musa-la-sua-storia-damore-i-suoi-quadri-impressionisti/
https://laviemoderne.it/schedaartista.php?id=126categ=2
https://www.storicang.it/a/pierre-auguste-renoir-il-pittore-della-gioia_15079
Pierre-Auguste Renoir: La Colazione dei Canottieri - Analisi dell'Opera | Appunti di Elementi di storia dell'arte ed espressioni grafiche | Docsity
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