Vangelo secondo Giovanni, testo e commento
 
 
Vangelo secondo Giovanni con commento
 
Introduzione (testo e commento)

La tradizione sull'autore del quarto Vangelo
La tradizione ci dice che il quarto Vangelo venne scritto da Giovanni dopo la fine dell'esilio nell'isola di Patmos (luogo di esilio in epoca romana, distante 70 km da Efeso), subito sotto l'imperatore Domiziano. Con Marco Cocceio Nerva, imperatore dal 96 al 98, Giovanni venne liberato, così la datazione della stesura del quarto Vangelo sarebbe alla fine del I secolo o all'inizio del II.
Leucio Carino, eretico, già discepolo di Giovanni, nell'apocrifo “Acta Iohannis” (150 ca) afferma che il quarto Vangelo è stato scritto dall'apostolo Giovanni.
Papia nel “Prologo Antimarcionita” (170) attribuisce il quarto Vangelo all'apostolo Giovanni.
Il “Canone muratoriano” (170 ca) dice che il quarto Vangelo è di Giovanni, uno dei discepoli.
Ireneo di Lione (130 - 202), che fu discepolo di Policarpo, a sua volta discepolo di Giovanni apostolo, nel 185 (“Adv Haer.”, 3,1,1; 4,20,11) afferma che Giovanni apostolo scrisse il quarto Vangelo e fu presente ad Efeso fino all'epoca di Traiano, che fu imperatore dal 98 al 117. Secondo la stessa fonte l'apostolo morì a Efeso.

I dati dei papiri
Importanti le datazioni dei papiri ritrovati con passi del quarto Vangelo. Il papiro Ryland 52, è datato in forma prudenziale al 125, ma è passibile di una datazione anteriore.
Il papiro Egerton 2, che viene considerata una composizione personale, dove vennero riportati a memoria parti dei Vangeli, tra i quali il quarto, è fatto risalire alla seconda metà del II secolo, ma quanto alla sua composizione, proprio per la presenza di elementi dei Vangeli sinottici, si è pensato ad una data antecedente, alla fine del I secolo, ma questo è solo ipotetico.
Il papiro Bodmer 66, che contiene quasi tutto il quarto Vangelo, venne datato inizialmente al 200 d.C. Successive considerazione hanno condotto alla proposta (Hertebt Hunger) di datarlo al 125 d.C.
Queste datazioni portano a concludere che nella prima metà del II secolo il quarto Vangelo era già diffuso e ciò autorizza a pensare che la sua stesura sia avvenuta in data antecedente. Se si considera che i papiri furono ritrovati in Egitto mentre il Vangelo venne scritto, secondo la tradizione, ad Efeso, si vede come i tempi debbono essere rapportati anche alla distanza e perciò la stesura del quarto Vangelo va arretrata molto sensibilmente rispetto alle date dei papiri Ryland 52 e Bodmer 66.

Un testimone oculare
Va affermato che tra la prima lettera di Giovanni - così attribuita dalla tradizione - e il quarto Vangelo c'è una stretta e innegabile parentela linguistica e dottrinale, e anche di finalità (Gv 20,31; 1Gv 5,13), e ciò fa sostenere (“Canone Muratoriano”: 170 ca; Clemente Alessandrino (150 - 214 ca) citato da Eusebio, (265 - 340), in “Hist. Eccl.” 7,25) che la lettera sia stata concepita come di accompagnamento al quarto Vangelo.
La lettera presenta chiaramente che il suo autore è stato un testimone oculare della vita di Gesù, e ciò viene presentato consecutivamente per due volte. “Quello che era da principio, quello che abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita (...), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché siate in comunione con noi” (1Gv 1,1-3). Impossibile sfuggire: si tratta di un testimone oculare. Di testimone oculare parla pure il finale del capitolo 21 del quarto Vangelo - certamente di un discepolo dell'autore, come lo è con tutta probabilità tutto il cap. 21 -, dove “Quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto” (Gv 21,20) è identificato con l'autore del Vangelo. (Gv 21,24): “Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera”.
Ed è anche lo stesso “discepolo che Gesù amava”, presente sul Calvario (19,26), che si dichiara testimone oculare (19,35): “Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate”.

Il discepolo che non si nomina
All'inizio del Vangelo viene nominato un discepolo di cui non viene presentato il nome (Gv 1,35- 40). Per cinque volte si parla di un “discepolo che Gesù amava” (Gv 13,23; 19,26; 20,2; 21,7; 21,20). Per una volta si parla di un “discepolo conosciuto dal sommo sacerdote” (18,15). Ora quel discepolo coincide, senza ombra di dubbio, con l'autore del Vangelo (13,23; 19,35; 21,20; 21,24).
La ricerca dell'identità del “discepolo che Gesù amava” va certamente fatta tra i tre che Gesù volle con sé sul Tabor e che poi furono nell'orto degli ulivi, cioè Pietro, Giacomo e Giovanni. Pietro non può essere perché più volte è nominato accanto al discepolo che non si nomina (13,23; 20,2; 21,20). Giacomo venne ucciso (At 12,2) durante il regno di Agrippa (ca. 41/ 44 d.C.), resta, quindi, Giovanni, che proprio sulla base di quanto riferito in (21,20 - 23) dovette vivere a lungo.

Giovanni apostolo e Giovanni l'anziano (presbitero)?
Sulla base di alcune parole di Papia (70 - 130), vescovo di Gerapoli e autore del libro “Spiegazioni delle sentenze (logia) del Signore”, la cui data di pubblicazione è pensata agli inizi del II secolo (Il libro purtroppo è giunto a noi nella vestigia di soli 13 frammenti), si è pensato a distinguere un Giovanni apostolo da un Giovanni presbitero (anziano), che potrebbe coincidere con l'autore della seconda e terza lettera di Giovanni (2Gv 1; 3Gv 1), e quindi per estensione anche della prima lettera nonché del quarto Vangelo.
Questo il passo di Papia riportato da Eusebio di Cesarea (265 - 340) (Hist. Eccl. 3,39): “Io non esito a inserire nelle mie interpretazioni, facendomi garante della verità, quanto un tempo ho appreso dai presbiteri e ho conservato nella memoria. Se accadeva che da qualche parte qualcuno avesse frequentato i presbiteri, mi informavo sulle parole dette dai presbiteri, domandando ciò che avevano detto Andrea, Pietro, Filippo, Tommaso, Giacomo, Giovanni, Matteo e qualche altro discepolo del Signore e ciò che dicono Aristone e il presbitero Giovanni, discepolo del Signore. Ero infatti persuaso che i racconti dati dai libri non potevano avere lo stesso valore di una voce viva e sonora”.
Come si può subito notare, la preoccupazione di Papia, che aveva a disposizione testi scritti sui loghia del Signore (i Vangeli), era quella di arricchirsi ulteriormente di informazioni sulle parole di Gesù ascoltando testimoni della predicazione degli apostoli. Ed ecco il punto: se c'è Giovanni apostolo nel passato (parole dette), c'è un Giovanni presbitero che è al presente (dicono). Da qui due Giovanni, uno al passato e uno al presente. Ma, se si nota con attenzione, si vede che Papia presenta sia il Giovanni del passato che il Giovanni del presente come discepoli del Signore; e discepoli del Signore è titolo dato agli apostoli. Dunque, non risulta affatto che ci fossero due Giovanni, ma che Giovanni fosse ancora in vita, e per questo era il presbitero per eccellenza, e ciò rende ragione del perché Giovanni si dichiara nella sua seconda e terza lettera il Presbitero, come ben noto in quanto ultimo degli apostoli in vita.
Va anche notato che Papia usa il termine presbiteri per indicare gli apostoli. Ciò che ha appreso dai presbiteri lo ha appreso con la mediazione di uditori qualificati: Papia non dice che ha incontrato Giovanni il presbitero. Nulla si può dire sull'identità di Aristone, che probabilmente è colui dal quale riceveva quanto diceva Giovanni apostolo, il Presbitero.

L'unità e originalità della composizione del quarto Vangelo
Se si parte dal fine specifico per il quale venne scritto il quarto Vangelo, cioè di fare argine alle dottrine che volevano scalzare la fede nella divinità di Cristo, non si esigerà da esso un marcato contributo alla cronologia della vita di Gesù, che avrebbe del resto comportato un'opera molto vasta.
Il quarto Vangelo si affianca ai Vangeli sinottici senza porsi in concorrenza, ma rafforza quanto dichiarano su Gesù, il Figlio di Dio.
Letterariamente il procedere del quarto Vangelo, che ormai possiamo tranquillamente chiamare di Giovanni apostolo, è conforme al carattere semitico, non necessitato dalla regolarità concatenata dell'esposizione. Il suo greco, ricco di semitismi, pur non essendo classico è chiaro, lineare, vigoroso.
Chi non accetta tali considerazioni si esercita a trovare fratture nella composizione del Vangelo, tali da pensare a successive stratificazioni.
Fa difficoltà in particolare un comando di Gesù (14,31) che si dice non eseguito e quindi ci sarebbe la presenza di una interruzione (ma è sostenibile il contrario: già ai primi del 1900 Fillion, Vigoroux, Le Camus, Knab, ecc.), e quindi una vestigia delle stratificazioni del testo a partire da un ipotetico nucleo palestinese, non meglio precisato. Questa difficoltà princeps varrebbe a consegnare il quarto Vangelo all'idea che non proceda tutto da un testimone oculare, ma da apporti teologici, anche di amplificazione narrativa, di una qualche comunità giovannea.
La radice di questo processo parte dal protestante tedesco, luterano, Rudolf Bultman (1884 - 1976) che presenta una distinzione tra Cristo della storia e Cristo della fede. Il Vangelo presenterebbe il Cristo della fede, una fede dono di Dio che non ha bisogno di essere supportata da prove oggettive di credibilità, la fede sarebbe così sacrificium intellectus, mentre non è affatto vero poiché la fede per essere accolta richiede elementi di credibilità che parlino all'intelligenza dell'uomo. Il Cristo della fede così non ha bisogno di conoscenza per cui essa viene data secondo le categorie del tempo, cioè in chiave mitologica. Agli inizi del 900 (Cf. Il protestante Charles Harold Dodd, 1884 - 1973: “L'interpretazione del Quarto Vangelo”, 1953) diversi si sono esercitati a trovare riferimenti linguistici (luce-tenebre, carne-spirito, vero, logos, seminatore, pastore, pecore, vite -Dionisio, pane -rappresentativo di Demetra che ha insegnato a farde gli uomini, acqua, credere, conoscere, vita -come conoscenza che libera dalla materia dove è imprigionata l'anima: reincarnazione, mondo, spirito, grazia- come dono della conoscenza: gnosi, rirorgere -nei miti agrari del ciclo della vegetazione) nei miti delle religioni misteriche ellenistiche, nello gnosticismo, nel mandeismo (Area Iraq: testi VI, XVI sec. d.C, con influssi giudaici e cristiani), nell'ermetismo (Egitto: testi II-III sec d.C. Conoscenze del mondo giudaico), per potere dire che la comunità giovannea prese da esse. Basterebbe, però, prendere una semplice “Concordanza pastorale della Bibbia” per vedere subito che il linguaggio del quarto Vangelo è radicato nel V.T. Basterebbe, anche, documentarsi un attimo sul linguaggio giudeo di Qumran per rigettare tali tentativi.
Secondo la teoria di Bultman, dai Vangeli non si può risalire al Cristo storico, se non con una vago e riduttivo dire. Con questa impostazione l'opera di Bultman risulta devastante poiché relega nel mito la divinità di Cristo, i miracoli, gli angeli, i demoni, la verginità di Maria, la risurrezione, l'ascensione al cielo.
L'ideologico e assurdo processo del Cristo della fede necessita di testimoni non oculari, ma di una comunità in pesante frattura con gli eventi storici, che riflette miticamente su di un fatto storico ad essa ormai inaccessibile. Da qui, tutto l'interesse a ritardare la data della composizione del quarto Vangelo. Posta la mitizzazione, ne segue la necessità di demitizzare gli strati mitici della composizione evangelica, della quale, inevitabilmente, ci si sente poi padroni, in una colpevole sostituzione personale alla testimonianza apostolica. Uno dei massimi contestatori di Bultman fu il teologo francese, protestante luterano, Oscar Cullmann (1902 - 1999).
Il pensiero del Vangelo secondo Giovanni è estremamente diverso e distinto, che risulta realmente impensabile una dipendenza dalle religioni misteriche ellenistiche, dalla gnosi, dall'ermetismo (testi II e III sec. d.C), dal mandeismo, già ricco di influssi giudaici (testi del XVI sec. d.C., a partire da una decina di secoli prima).
Questo procedere di Bultman, liberato dai suoi gravissimi errori, è stato accolto da autori cattolici con varie congetture (R. Schackenburg; W. Wilkens; M.E. Boismard; R.E. Brown, e altri) nel senso di un approfondimento teologico dei dati storici del quarto Vangelo attraverso una riflessione teologica, che si è espressa in più redazioni, a partire da un nucleo primitivo palestinese, ampliando i discorsi di Gesù. Lo schema presenta, per il quarto Vangelo, il risultato di postulare alla fine una comunità “scuola giovannea” piena di ardore e di speculazione, il cui complesso elaborato è confluito nel quarto Vangelo ad opera di qualche giudeo-cristiano. Ma di una tale comunità di fervore e speculazione teologica non si ha riscontro, o eco, nelle comunità primitive che le lettere di Paolo o di Pietro ci presenti, come neppure nelle comunità dell'Apocalisse.
La ragione del Vangelo secondo Giovanni è quella di sostenere le comunità ormai bersagliate da gravi pressioni ereticali (20,31), e ciò con le parole, i fatti, i segni, cioè con le realtà di Gesù effettivamente avvenute, secondo l'affermazione, più volte presentata (19,35; 20,30; 21,24) dallo stesso testimone oculare e scrittore. Così per una “scuola giovannea”, non c'è proprio spazio.
Il Cristo della fede è esattamente il Cristo storico, creduto nella luce dell'azione dello Spirito Santo, che conduce a tutta la verità (Gv 16,13), cioè alla comprensione del mistero di Cristo per quanto è concesso qua in terra.
Il Vangelo di Giovanni mette il lettore, più dei Sinottici, coi quali non vuole affatto gareggiare, a vivissimo contatto con Gesù, e con tutta probabilità l'umiltà di Giovanni nel non nominarsi è subordinata a questo. La mediazione “discepolo che Gesù amava” è tuttavia presente poiché egli non si annulla, ma è chiaramente denunciata e posta al servizio della comprensione delle parole e delle azioni di Cristo.

“Il discepolo che Gesù amava”
Questa è l'identità che presenta di sé l'autore del quarto Vangelo, e ciò va compreso. Innanzitutto, diciamo che Dio non ha dei cocchini (At 19,34), e dunque Giovanni è il discepolo che Gesù amava per la sua corrispondenza. Ma non basta a spiegare il titolo che Giovanni si dà, bisogna ricorrere alla purezza verginale di Giovanni, come la storia afferma. Bisogna poi spiegare perché Giovanni si presenta con tale titolo, e la risposta la si ha se si tiene conto che le eresie che Giovanni aveva di fronte erano quelle dei Doceti, dei Nicolaiti, degli Ebioniti. Presso di essi c'era la negazione di Cristo Figlio di Dio, poiché non poteva il Logos assumere una carne umana procedente da un principio inferiore a Dio, influsso del manicheismo. Essi si dichiaravano liberi da colpa per via della conoscenza (gnosi), e con ciò la fornicazione non colpiva lo spirito reso integro dalla conoscenza, e perciò la fornicazione non era peccato, ma lo era il difetto nella conoscenza. Si spiegano così le libere concupiscenze dei Nicolaiti (Ap 2,6.16), dei fautori della dottrina di Balaam (2,14), dei seguaci di Gezabele (Ap 2,20). Dietro questi nomi vanno visti gruppi di Doceti, di Ebioniti, di seguaci di Cerinto, di Menandro, di Saturnino, a loro volta discepoli di Simon Mago.
La prima lettera di Giovanni (1,8) parla di quelli che si ritenevano senza peccato, mentendo, e costoro vanno visti come gli anticristi di cui parla l'apostolo (1Gv 2,18).
Giovanni presentandosi come “il discepolo che Gesù amava” sa che questa designazione sarà compresa a partire dalla sua verginale purezza: Gesù amava Giovanni per la sua purezza.

La verginità di Giovanni era notissima. E' affermata nell'apocrifo “Acta Ioannis” 113 (II sec.), nel vangelo apocrifo gnostico “Pistis Sophia” 41,96 (ca 250). E' dichiarata da una composizione degli eretici monarchiani, “Prologo monarchiano” (III sec.), anche se con la limitazione che Giovanni fu prima sposo. E' affermata nelle “Memorie di Abdia”, 5,23 (VI - VII secolo).
Presso i padri valse grandemente il versetto 13,23 del Vangelo. La ragione per cui l'autore si firma come “il discepolo che Gesù amava”, viene trovata nell'aver egli posato il capo sul petto di Gesù, vicino al cuore, come lo stesso Vangelo (21,20) presenta.
Non solo questo perché sant'Efrem il Siro (306 - 373) negli “Inni sulla Verginità” esalta la verginità dell'apostolo a partire dal gesto del posare il capo sul petto di Gesù. Tale gesto è per sant'Efrem il segno della condizione verginale dell'apostolo che si eleva a consacrazione verginale. San Girolamo (347 - 419/420) afferma che la verginità di Giovanni era già prima di avere posato il capo sul petto del Salvatore.

I Vangeli Sinottici e il Vangelo secondo Giovanni

Per i Vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca) il processo di composizione passò attraverso la predicazione orale apostolica fatta di annuncio e di catechesi, nonché l'azione liturgica. In tal modo si ebbe una sistemazione didattica delle parole e degli eventi di Cristo.
La “Dei Verbum” del Concilio Vat. II al n° 19 dice: “Gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli scegliendo alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o anche in scritto (Cf. Lc 1,1), redigendo un riassunto di altre, o spiegandole con riguardo alle situazioni delle Chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo da riferire su Gesù con sincerità e verità”.
In queste parole la distinzione tra Cristo storico e Cristo della fede non trova collocazione. Vero è che la fede è nel Cristo, realmente nato da Maria, ecc. ecc. crocifisso, risorto, asceso al cielo, Figlio unigenito del Padre. Fede nel Cristo reale, entrato nella storia, e non un Cristo elaborato dall'immaginazione. Cristo colto nella fede e nella divina fiamma della Pentecoste. Cristo annunciato dagli Apostoli che sono stati con lui e che testimoniano di lui.

L'evangelista Matteo fu un testimone oculare, e la tradizione non esita a dire che Matteo scrisse un vangelo in ebraico (con tutta probabilità da intendersi in aramaico), tradotto poi in greco con una certa eleganza pur lasciando presenti numerosi semitismi nascosti nella traduzione.
Gli studiosi presentano un processo complesso, cioè il Vangelo secondo Matteo in greco dipenderebbe sì dal Vangelo in aramaico, andato perduto dopo il collasso del mondo palestinese con la distruzione di Gerusalemme, ma anche, per alcuni tratti, dal vangelo di Marco dove, a sua volta, non dovette essere estraneo un apporto del Vangelo in aramaico. Insieme a ciò gli studiosi ipotizzano l'esistenza di una raccolta di logia del Signore detta Quelle (quelle in tedesco significa fonte), che venne utilizzata nella redazione del Vangelo in greco che oggi abbiamo.
Certo è che Matteo scrisse un vero Vangelo in aramaico per i Palestinesi, e non solo una raccolta di logia del Signore. Uscendo dai confini palestinesi Matteo stesso (lo si è sostenuto e lo si può ancora sostenere), o qualcuno per lui, dovette tradurre il Vangelo aramaico in greco, con qualche arricchimento, che non si può escludere, ma andrebbe dimostrato con convergenze degli studiosi della questione sinottica.
Certo è che il Vangelo di Matteo in greco conserva in pieno il suo taglio evangelizzatore per la Palestina. Il Vangelo in greco di Matteo è canonico, cioè ispirato.
Marco, che dipende dalle catechesi apostoliche di Pietro, ha invece in sé il taglio evangelizzatore per il mondo romano.
Luca invece utilizza il vangelo di Marco, e non dovette avere accesso ai dati di Matteo. Infatti Luca diverge da Matteo quanto alla genealogia di Gesù, quanto all'ordine delle tentazioni di Gesù, quanto al discorso delle beatitudini, e altri punti.
L'evangelista Luca possiede tuttavia dati di prima mano come i racconti dell'infanzia, che dovette ricevere da Maria stessa, e altro gli giunse dalle sue ricerche accurate su quanto risultava già scritto, più o meno estesamente, su Gesù, con però un lavoro di vaglio storico (Lc 1,1s): “Ho fatto ricerche accurate su ogni circostanza, fin dall'inizio”. Il taglio evangelizzatore di Luca è rivolto alle comunità cristiane provenienti dal paganesimo, manifestando attenzione per i gentili, anch'essi chiamati alla fede, e nello stesso tempo mostrando di distinguere tra il popolo ebraico sobillato e i capi fautori della morte di Gesù (Lc 23,35). In tal modo Luca contribuiva ad attutire i contrasti tra Giudei e i Cristiani. Per tutto ciò Luca possiede una sua spiccata identità.

Il Vangelo secondo Giovanni rientra nelle parole della “Dei Verbum” per la pericope dell'adultera e il capitolo finale. Rientra quanto alla scelta dei logia del Signore e degli eventi, ma si sottrae alla trasmissione orale poiché scritto da un testimone oculare.
Lo scopo del Vangelo secondo Giovanni è quello di confermare le comunità asiatiche cristiane dalla pressione ereticale dei negatori della divinità di Cristo, e questo viene attuato attraverso i fatti, i segni, le parole del Signore. Giovanni, più di ogni altro apostolo, poté trattenere nel suo cuore la parola del Signore. Il discepolo vergine non aveva una mente e un cuore con i filtri di una mentalità difficile da rimuovere, era - voglio dire - una pagina bianca dove la Parola si stampava con facilità e vi rimaneva. Con ciò non possono venire negate le cadute di memoria dovute agli anni. Presenti pure le inevitabili sintetizzazioni. Il vangelo secondo Giovanni non aiuta molto la cronologia della vita di Cristo essendo focalizzato al suo scopo di affermare la divinità di Cristo
Il suo firmarsi, “discepolo che Gesù amava”, oltre ad essere segno di dolce umiltà, è segno di autenticità di ciò che scrive: era amato perché ricambiava l'amore. L'amore, poi, conserva ciò che l'amato ha detto con amore, e il Vergine discepolo poté farlo, più degli altri.
Negli ampi discorsi di Giovanni appare come l'identità divina di Cristo sia dallo stesso affermata, e testimoniata dalle opere compiute nel nome del Padre suo. Testimone importantissimo della divinità di Cristo è Giovanni Battista.
Gesù è presentato nel suo durissimo scontro con i Giudei negatori della sua divinità, testimoniata subito, al Giordano, dal Battista.
La difesa testimoniale di Gesù della sua identità di Figlio unigenito del Padre appare il più alto soccorso per le comunità asiatiche di fronte alle negazioni sia dei giudei, sia degli anticristi provenienti dai cristiani (1Gv 2,19).