Testo e commento

 

Capitolo   3   6   8

 

Le diverse inesattezze storiche e geografiche del libro di Tobia pongono immediatamente una domanda: l’autore sapeva degli errori che stava scrivendo?

Sapeva l’autore che Ectabana era più in alto di Rage?

Sapeva che lo scisma di Geroboamo si era consumato nel 931 e che la deportazione dalla Samaria avvenne nel 734?

Sapeva che dopo Salmasaar ci fu Sargon e non subito Sennacherib?

Sapeva che tra Ectabana e Rage ci sono 300 km e non due giorni di cammino?

Sapeva che Ninive venne distrutta nel 612, cioè più tardi della possibile data di morte di Tobia, figlio di Tobi?

Se sapeva questi dati e ha voluto fare una narrazione dove sono contraddetti, si dovrebbe concludere che nella composizione introdusse dati volutamente fasulli, il che non può piacere a nessuno.

Che cosa allora intese fare l’autore del libro di Tobia, così privo di preoccupazione per una verifica dei dati storici e geografici? Scrivere un testo per presentare la vita del quotidiano familiare dentro le grandi vicende storiche di Israele e della nazioni. Fece un atto di attenzione per il quotidiano di una famiglia.  

Del resto la caduta della monarchia di Israele veniva a far emergere la storia del quotidiano, il riferimento alla vita domestica, patriarcale, così ben evidente nel libro della Genesi.

Dei grandi, infatti, lo scrittore non se ne occupa, anche se gli interessa un certo Achikar, un antico sapiente, cancelliere di Sennacherib e di Assaraddon (Cf. 1,22; 2,10; 11,18; 14,10), ma questo perché viene presentato del parentado di Tobi.

L’autore pare proprio uno scriba che si sia allontanato dalle palestre del sapere per una vita pia e semplice, e che si sia lasciato assorbire, senza resistenze, dalla quotidianità di un villaggio dove, come in ogni villaggio, le narrazioni affermatesi si tramandavano e ritramandavano attorno al focolare, e per questo subivano ritocchi che legittimavano ritocchi, inglobando fatalmente errori storici e geografici. L’autore assunse dalle narrazioni paesane su Tobi anche l’ambientazione storica che ne veniva data, con l'unica intenzione di scrivere un libro di edificazione per la vita del quotidiano in mezzo a tante difficoltà causate dalla superbia dei potenti. 

L’autore intese, così, dare vita letteraria a una storia della narrativa popolare, che potè ampliare per un fine teologico e pastorale. Interprete di una necessità del tempo, il libro varcò subito i confini del villaggio e si affermò.

Per i lettori del passato il libro di Tobia era un libro storico, per noi, disincantati da tante analisi, il libro di Tobia, che è parola di Dio, è un libro sapienziale nel quadro di una tipologia familiare, alla cui origine non è estraneo un lontano fondamento storico.

E’ per noi un bellissimo libro capace di condurre alla valorizzazione delle persone e dei vincoli familiari, alle piccole cose che diventano grandi se vissute nella fede e nell’amore, e che vengono a costituire, così, la serenità del quotidiano. Un libro che è ben lontano dal fomentare un “riflusso nel privato” poiché promuove una viva appartenenza al popolo di Dio, nel vincolo di una fede che aspetta il tempo della futura Gerusalemme messianica.

Certamente lo scritto venne composto nel  postesilio, forse nel 200 a.C.

 

La drammatica situazione di Sara

3 (7-17) “Nello stesso giorno capitò a Sara figlia di Raguele, abitante di Ecbàtana, nella Media, di sentire insulti da parte di una serva di suo padre. Bisogna sapere che essa era stata data in moglie a sette uomini e che Asmodeo, il cattivo demonio, glieli aveva uccisi, prima che potessero unirsi a lei come si fa con le mogli. A lei appunto disse la serva: <Sei proprio tu che uccidi i tuoi mariti. Ecco, sei già stata data a sette mariti e neppure di uno hai potuto godere. Perché vuoi battere noi, se i tuoi mariti sono morti? Vattene con loro e che da te non abbiamo mai a vedere né figlio né figlia>. In quel giorno dunque essa soffrì molto, pianse e salì nella stanza del padre con l’intenzione di impiccarsi. Ma tornando a riflettere pensava: <Che non abbiano ad insultare mio padre e non gli dicano: La sola figlia che avevi, a te assai cara, si è impiccata per le sue sventure. Così farei precipitare la vecchiaia di mio padre con angoscia negli inferi. Farò meglio a non impiccarmi e a supplicare il Signore che mi sia concesso di morire, in modo da non sentire più insulti nella mia vita>. In quel momento stese le mani verso la finestra e pregò: <Benedetto sei tu, Dio misericordioso, e benedetto è il tuo nome nei secoli. Ti benedicano tutte le tue opere per sempre. Ora a te alzo la faccia e gli occhi. Dì che io sia tolta dalla terra, perché non abbia a sentire più insulti. Tu sai, Signore, che sono pura da ogni disonestà con uomo e che non ho disonorato il mio nome, né quello di mio padre nella terra dell’esilio. Io sono l’unica figlia di mio padre. Egli non ha altri figli che possano ereditare, né un fratello vicino, né un parente, per il quale io possa serbarmi come sposa. Già sette mariti ho perduto: perché dovrei vivere ancora? Se tu non vuoi che io muoia, guardami con benevolenza: che io non senta più insulti>”. 

 

Appare immediatamente l’odio di una serva, a cui risale, da quanto il testo consente di arguire, la stregoneria.

La perversità dei mariti.

Il maleficio è inoperante su Sara, ma tuttavia il demonio si ripromette di condurla alla disperazione. La serva lavora nella medesima direzione, vedendo che la padrona rimane in vita e in salute. Così l’accusa di essere lei la causa della morte dei mariti e le augura la morte esasperando la sua situazione di dolore, portandola così al pensiero di uccidersi.

Agisce a difesa di Sara la sua integrità che rifiuta un approccio brutalmente sensuale: Tu sai, Signore, che sono pura da ogni disonestà con uomo”.

L’odio del demonio voleva insozzare infatti Sara, travolgerla nella lussuria, per poi averla in potere. (I matrimoni allora avvenivano con l’interferenza dei genitori per cui i due sentivano il bisogno di avere un minimo di conoscenza nell’affetto, ma questo mancava nella prima notte dei matrimoni di Sara, e Sara lo percepiva con raccapriccio).

Il nome Asmodeo del demonio deriva dall’ambiente popolare. Il nome lo si è accostato ad Aeshma, uno dei sette demoni del parsismo, ma è più probabile che il nome derivi dalla radice ebraica “samad” (distruggere).

La prima osservazione è che il demonio non ha potere su chi vive i comandamenti di Dio. Già Balaam, chiamato a fare un rito di stregoneria contro Israele, si trovò nell’impossibilità di nuocergli (Nm 22; 23; 24). Per Sara la situazione è quella di una durissima prova, sulla cui durata vigila Dio.

La seconda osservazione è che mentre nel libro di Giobbe Dio non dà a Satana il potere di togliere la vita a Giobbe, qui accade che Asmodeo ha il potere di uccidere i mariti di Sara; ma in questo caso quegli uomini devono avere raggiunto dei vertici di perversione, per cui è configurabile, con certezza, che i mariti di Sara fossero uomini biechi che il demonio spingeva verso la donna per insozzarla. Poi, di fronte allo smacco di vederla salda e difesa da Dio, il demonio si scagliava nella più furibonda rabbia contro l’uomo che aveva fallito nella sua seduzione brutalmente sensuale. Dio, che disapprova un matrimonio inteso come sfogo di bestialità, permetteva, secondo giustizia, la morte dei vari mariti, anche in ragione della difesa della donna. Ma quell’uomo, nel momento di essere ucciso, aveva un’occasione di salvezza, vedendo il vero volto del maligno e la testimonianza di una vera virtù.

 

Un pesce molto utile

6 (1-9) Il giovane partì insieme con l’angelo e anche il cane li seguì e s’avviò con loro. Camminarono insieme finché li sorprese la prima sera; allora si fermarono a passare la notte sul fiume Tigri. Il giovane scese nel fiume per lavarsi i piedi, quand’ecco un grosso pesce balzò dall’acqua e tentò di divorare il piede del ragazzo, che si mise a gridare. Ma l’angelo gli disse: <Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire>. Il ragazzo riuscì ad afferrare il pesce e a tirarlo a riva. Gli disse allora l’angelo: <Aprilo e togline il fiele, il cuore e il fegato; mettili in disparte e getta via invece gli intestini. Il fiele, il cuore e il fegato possono essere utili medicamenti>. Il ragazzo squartò il pesce, ne tolse il fiele, il cuore e il fegato; arrostì una porzione del pesce e la mangiò; l’altra parte la mise in serbo dopo averla salata. Poi tutti e due insieme ripresero il viaggio, finché non furono vicini alla Media.

Allora il ragazzo rivolse all’angelo questa domanda: <Azaria, fratello, che rimedio può esserci nel cuore, nel fegato e nel fiele del pesce?>. Gli rispose: <Quanto al cuore e al fegato, ne puoi fare suffumigi in presenza di una persona, uomo o donna, invasata dal demonio o da uno spirito cattivo e cesserà in essa ogni vessazione e non ne resterà più traccia alcuna. Il fiele invece serve per spalmarlo sugli occhi di uno affetto da albugine; si soffia su quelle macchie e gli occhi guariscono>".

 

Il pesce, sicuramente un luccio, si avventa contro il giovane Tobia, ma quel pesce che poteva diventare una grande disgrazia, per l’intervento di Raffaele diventa una fonte di salvezza. Tobia riesce con facilità a catturarlo (il luccio è un pesce voracissimo, può arrivare fino a due metri di lunghezza; lo si ritrova nel fiume Tigri). Raffaele costituisce cuore e fegato del pesce a sacramentali per una futura azione contro Asmodeo. Il fiele viene costituito come un sacramentale per un rito di guarigione dall’albugine degli occhi. L’esorcismo sarà per liberare Sara, e il fiele per ridare la vista a Tobi (11,11). 

 

Le rassicurazioni di Raffaele

(14-19) “Allora Tobia rispose a Raffaele: <Fratello Azaria, ho sentito dire che essa è già stata data in moglie a sette uomini ed essi sono morti nella stanza nuziale la notte stessa in cui dovevano unirsi a lei. Ho sentito inoltre dire che un demonio le uccide i mariti. Per questo ho paura: il demonio è geloso di lei, a lei non fa del male, ma se qualcuno le si vuole accostare, egli lo uccide. Io sono l’unico figlio di mio padre. Ho paura di morire e di condurre così alla tomba la vita di mio padre e di mia madre per l’angoscia della mia perdita. Non hanno un altro figlio che li possa seppellire>. Ma quello gli disse: <Hai forse dimenticato i moniti di tuo padre, che ti ha raccomandato di prendere in moglie una donna del tuo casato? Ascoltami, dunque, o fratello: non preoccuparti di questo demonio e sposala. Sono certo che questa sera ti verrà data in moglie. Quando però entri nella camera nuziale, prendi il cuore e il fegato del pesce e mettine un poco sulla brace degli incensi. L’odore si spanderà, il demonio lo dovrà annusare e fuggirà e non comparirà più intono a lei. Poi, prima di unirti con essa, alzatevi tutti e due a pregare. Supplicate il Signore del cielo perché venga su di voi la sua grazia e la sua salvezza. Non temere: essa ti è stata destinata fin dall’eternità. Sarai tu a salvarla. Ti seguirà e penso che da lei avrai figli che saranno per te come fratelli. Non stare in pensiero>. Quando Tobia sentì le parole di Raffaele e seppe che Sara era sua consanguinea della stirpe della famiglia di suo padre, l’amò al punto da non saper più distogliere il cuore da lei”.

 

La via d’uscita da questa situazione, oltremodo tenebrosa, è segnata dalla fede di Sara e dall’azione della Provvidenza, che le fa incontrare uno sposo che l’ama, e che è un legittimo pretendente (6,12) secondo la legge del levirato data da Mosè (Cf. Gn 38,1s; Dt 25,5).

Quello che anima Tobia nei confronti di Sara è l’amore.

 

Il felice esito del matrimonio

8 (1-9) “Quando ebbero finito di mangiare e di bere, decisero di andare a dormire. Accompagnarono il giovane e lo introdussero nella camera da letto. Tobia allora si ricordò delle parole di Raffaele: prese dal suo sacco il fegato e il cuore del pesce e li pose sulla brace dell’incenso L’odore del pesce respinse il demonio, che fuggì nelle regioni dell’alto Egitto. Raffaele vi si recò all’istante e in quel luogo lo incatenò e lo mise in ceppi. Gli altri intanto erano usciti e avevano chiuso la porta della camera. Tobia si alzò dal letto e disse a Sara: <Sorella, alzati! Preghiamo e domandiamo al Signore che ci dia grazia e salvezza>. Essa si alzò e si misero a pregare e a chiedere che venisse su di loro la salvezza, dicendo: <Benedetto sei tu, Dio dei nostri padri, e benedetto per tutte le generazioni è il tuo nome! Ti benedicano i cieli e tutte le creature per tutti i secoli! Ti hai creato Adamo e hai creato Eva sua moglie, perché gli fosse di aiuto e di sostegno. Da loro due nacque tutto il genere umano. Tu hai detto: Non è cosa buona che l’uomo resti solo; facciamogli un aiuto simile a lui. Ora non per lussuria io prendo questa mia parente, ma con rettitudine d’intenzione. Degnati di aver misericordia di me e di lei e di farci giungere insieme alla vecchiaia>. E dissero insieme: <Amen, amen!>. Poi dormirono per tutta la notte”.

 

Il demonio fugge nell’alto Egitto. L’Egitto è pensato come luogo rifugio dei demoni, questo per le sue magie, le sue idolatrie. L’accenno all’Egitto è rivolto a sottolineare quanto sia stato grande l’errore dei re d’Israele di appoggiarsi all’Egitto. Là l’arcangelo Raffaele lo incatena. La realtà e che il demonio viene respinto negli abissi infernali (Cf. Ap 20.3).

Questo passo del libro presenta una vera liturgia coniugio. L’atto coniugale vi appare nella sua splendente verità di rito della vita. I due pregano perché il loro incontro sia santo e fecondo. Dio non nega affatto le giuste gioie dell’incontro tra l’uomo e la donna, non è un carceriere Dio, ma non vuole essere estromesso nel suo disegno che ha voluto l’uomo e la donna suoi collaboratori nella creazione di nuove vite.