Testo e commento
 
Capitolo   1   2   3   4   5  
La voce della tradizione
Si hanno allusioni e citazioni indirette, e quindi dati non assolutamente sicuri, in scritti che attribuiscono erroneamente la lettera a Barnaba, collaboratore di Paolo; come pure nelle lettere di sant’Ignazio di Antiochia; nella lettera a Diogneto; nella Didaché, ecc.
Per certo si ha che Papia (ca. 70 - 130), per testimonianza di Eusebio (265 - 340) (“Storia ecclesiastica”, III,39) “Si servì di alcune testimonianze tolte dalla prima lettera di san Giovanni” e dichiarò la lettera (“Storia ecclesiastica”, III,24) tra gli scritti accolti in tutte le Chiese. Per certo san Policarpo (ca. 69 - 155), discepolo di Giovanni, cita quasi testualmente il cap. IV,3 nella sua lettera ai Filippesi. Passi della prima lettera di Giovanni si trovano in Giustino (100 - 162/168) (“Dialogo con Trifone”, 1233,9: 1Gv 1,2.3; 3,1.22). Sant’Ireneo (130 - 202), discepolo di Policarpo, (“Contro gli eretici”, III,16.5) attribuisce la lettera a “Giovanni discepolo del Signore”, e ne cita diversi passi (1Gv 2,18.19.21.22). La prima lettera viene citata da Tertulliano (ca. 155 - ca. 230) (“Contro Praxean” - un eretico dell’Asia minore che negava la distinzione delle tre Persone divine (Monarchianesimo) -.,15); Clemente Alessandrino (180-202) (“Stromati” - lett. “tappezzerie” -, II,15; III,4.6; ecc) attribuisce la lettera a Giovanni. Lo stesso Cipriano l’attribuisce a Giovanni (“Epistola 25”). San Gerolamo (347 - 419/420) afferma in (“Degli uomini illustri”, Ill. IX) che la lettera è “ab universis ecclesiasticis et eruditis viris probatur”. Eusebio (“Storia ecclesiastica”, 6,25) riporta che Origene (185 - 254) affermava la stessa cosa, attribuendo la lettera a Giovanni apostolo.

Gli unici negatori furono gli eretici Alogi (II sec.) (da logos e alfa: “Coloro che negano il Verbo”, (Sant’Epifanio, ”Contro tutte le eresie”, LI) e Marcione (85 - 160), ma solo perché contrastava le lori idee.

L’esame interno della lettera a confronto con il IV Vangelo
Autori protestanti hanno sostenuto che la prima lettera di Giovanni e il quarto Vangelo hanno autori diversi. Tra i più recenti di questi autori va segnalato Charles Harold Dodd (“The Johannina Epistles”, in The Moffat N.T. Commentary, New York-London, 1946). Due studiosi, anch'essi protestanti, (Heinrich Julius Holtzmann, “Jarbuch für Protestantische Theologie”, 1882. Aland England Brooke, “The Johannine Epistles”, Edinbugh 1912, rist. 1948) hanno però rilevato numerosissime espressioni caratteristiche delle due composizioni.
Vi sono forti assomiglianze grammaticali, tanto da favorire nettamente la tesi che si tratta di un unico autore per i due scritti.

I procedimenti stilistici della prima lettera di Giovanni richiamano lo stile del quarto Vangelo e anche ciò induce a pensare che l’autore sia uno solo.

Esistono degli evidenti elementi semitici nella prima lettera, così come elementi semitici si ritrovano nel quarto Vangelo.

Vi è analogia di contenuto tra la prima lettera di Giovanni e il quarto Vangelo. Charles Harold Dodd e altri autori protestanti su questo punto mantengono delle riserve, ma un esame approfondito del quarto Vangelo annulla le loro tesi. Escatologia, dottrina dell’espiazione, concezione dello Spirito Santo, presenti nella prima di Giovanni si ritrovano nel quarto Vangelo. Resta solo una differenza di accento e di tono della lettera, spiegabile con la sua natura.

Va notato che la prima Giovanni presenta il contenuto dei discorsi di Gesù.

La fisionomia dell’autore è la stessa per i due scritti. L’autore è un ebreo, un testimone diretto di quanto espone, che, pur cercando di nascondersi tenacemente, rivela un’autorità apostolica. L’autore, che rimane estraneo ai classici e ai filosofi greci, conosce e domina la lingua greca.

L’autore della lettera
La tradizione non ha dubbi ritenendola scritta dall’apostolo Giovanni e il moderno esame interno non contraddice la tradizione. Pure il quarto Vangelo risulta di Giovanni apostolo (Vedi Introduzione al Vangelo di Giovanni)

I destinatari della prima lettera di Giovanni
La lettera non ha gli usuali saluti iniziali e finali. Non ha l’indicazione come destinatari di una persona privata o di una Chiesa particolare o di un gruppo di Chiese, tuttavia è fondato dire che sia indirizzata alle Chiese dell’Asia Minore da Giovanni conosciute. La tradizione indica, infatti, che Giovanni operò, negli ultimi anni della sua vita, a Efeso (Ireneo, “Contro gli eretici”, II,22,5; III,3,4; Eusebio “Storia ecclesiastica”, III,23,4). Le comunità dell’Asia minore erano composte da etnico-cristiani in prevalenza, e parlavano lingua greca.

Il riferirsi, come fa Joseph Chaine (“Les Epîtres Catholiques”, Paris, 1939), all’invito finale di Giovanni di guardarsi dagli idoli (5,21) per fondare la teoria della provenienza dal paganesimo delle Chiese destinatarie della lettera, contraddice tutta l’altezza della lettera rivolta a difendere i fedeli dagli anticristi, i quali idoli, ben più micidiali di quelli di pietra. I lettori, capaci di sintonizzarsi con la lettera e quindi ben lontani dagli idoli pagani di pietra, non potevano che intendere correttamente.

Lo sfondo culturale ebraico che la lettera rivela non era incomprensibile alle varie comunità cristiane, in quanto innestate nell’olivo buono (Rm 11,17). Tale innesto comportava formalmente una certa conoscenza del Vecchio Testamento, facilitata dalla traduzione dei LXX.

Occasione e finalità della lettera
Giovanni non presenta in maniera esplicita gli errori dai quali difende i fedeli, ma certamente sono errori sia di elaborazione dottrinale, sia di immissione di vari concetti fuorvianti dovuta a pseudomistici (4,1). E questi errori provenivano da persone interne alle comunità, ma anche uscite dalle comunità (2,19) dopo aver incubato in esse i loro errori e aver cercato di divulgarli.
La lettera, certamente, allude agli errori di quella che si può definire pregnosi, che sarà sistematizzata nel II sec. La lettera ai Colossesi, quella agli Efesini rivelano la presenza incipiente della pregnosi, “falsa scienza”, come la definisce Paolo (1Tm 6,20). Nella prima lettera a Timoteo (4,3) si trova l’anticipazione che gli eretici vieteranno il matrimonio, e ciò rivela chiaramente l’incombente dualismo gnostico per cui la materia è malvagia e scaturisce da un Principio malvagio; così il matrimonio, includendo l’essere una sola carne e l’essere veicolo di una nuova nascita, diventa malvagio. La strada per giungere all’errore della reincarnazione, già presente nel pensiero del platonismo e dello stoicismo, con queste posizioni era di fatto imboccata, andando contro sia ai testi del Vecchio Testamento che del Nuovo. Era presente pure l’errore che la risurrezione era già avvenuta (2Tm 2,18), nel senso che con la gnosi si attuava la liberazione dalla carne vista come risurrezione dello spirito, e si negava la risurrezione della carne, che sarebbe stata schiavitù. La divinità di Cristo veniva oscurata a favore della mediazione angelica (Lettera ai Colossesi e Efesini). Ma già dalla 1 e 2 Tm si può intendere che veniva negata la stessa Incarnazione visto che la carne era male. Il docetismo (da dokéin: apparire) era già in formazione con la sua dichiarazione che Cristo, non era il Figlio di Dio incarnatosi, ma solo un’apparenza; con ciò si rendeva vana la Passione di Cristo poiché risultava un’apparenza (Basilide sosterrà che crocifisso realmente fosse stato Simone di Cirene)

Lo sviluppo della gnosi (II sec.) dividerà la Bibbia nella manifestazione di due Dei. Identificherà nel Dio del Vecchio Testamento il Principio malvagio, mentre nel Dio neotestamentario identificherà il Principio buono creatore dello spirito e per emanazione (non generazione) l’eone Cristo, che non poteva incarnarsi perché la materia proveniva dal Principio malvagio, ma solo prendere un’apparenza di uomo, l’uomo Gesù.

La tradizione riferisce che Giovanni conobbe l’eretico Cerinto (Ireneo, “Contro gli eretici”, III,3), della cui dottrina sappiamo ben poco. Quello che si può dire (Ireneo, “Contro gli eretici”, I,26) è che quest’eretico negava l’Incarnazione del Verbo, e faceva di Cristo solo un uomo nato da Maria e da Giuseppe, e che nel battesimo del Giordano lo Spirito era disceso su di lui ed era rimasto su di lui fino alla passione, e poi lo aveva abbandonato.

Dall’Apocalisse sappiamo dei Nicolaiti, un gruppo che prendeva il nome da Nikolaos (nikos: conquistare, sottomettere; laos: popolo). Il significato di Nikolaos è dunque “Uno che sottomette il popolo”. I Nicolaiti (Ap 2,6.16) pare che debbano identificarsi con i fautori della “dottrina di Balaam” (Ap 2,14; Cf. Nm 25,1-3). Essi praticavano la fornicazione, nel quadro del dualismo gnostico. La posizione dei Nicolaiti era diversa dalla posizione gnostica di coloro che vietavano il matrimonio, poiché essi, al contrario, abusavano della carne credendo che lo spirito non ne venisse contaminato in virtù della conoscenza, ovvero della “dottrina di Balaam”. “Le profondità di Satana” (Ap 2,24), cioè le dissolutezze - stimate non contaminanti - venivano perseguite nell’illusione di cogliere, per contrasto, la luce della conoscenza, e quindi innalzarsi in essa: le bassezze intese come funzionali alle elevazioni.

Gli aderenti a Gezabele (Ap 2,20) sono un caso nell’ambito dei Nicolaiti. La falsa profetessa dal nome simbolico di Gezabele (1Re 16,31; 18,4.19, ecc.) chiedeva una iniziazione sessuale con lei, promuovendo in tal modo la fornicazione tra i suoi aderenti, anche con la violazione dei vincoli coniugali (adulterio). L’invito a consumare le carni degli animali immolate agli idoli faceva parte dello spirito della falsa libertà (Cf. Rm 6,15; 1Cor 6,12; 8,1s; 10,23; 2Pt 2,1.10.15-16).

Circa l’origine dei Nicolaiti, non si può dire nulla di certo. Una serie di padri della Chiesa li connette con il diacono Nicola di Antiochia (At 6,5) inteso come traditore al pari di Giuda (Ireneo, Ippolito, Epifanio, Teodoreto, Tertulliano, Filastro, Gerolamo, Agostino, Cassiano). Altri (Clemente Alessandrino, “Istruzioni”, II,20; Eusebio “Storia ecclesiastica” III,29; Teodoreto “Compendio delle fantasiosità degli eretici”, III,1) riferiscono che i Nicolaiti furono dei perversi che abusarono di una frase del diacono di Antiochia, che in sé è asceticamente corretta: “Bisogna trascurare la carne”, intendendo “maltrattare la propria carne”. Una strumentalizzazione del genere sarebbe stata, però, troppo debole per essere riconosciuti con tal nome. Forse si tratta di altro Nicola, magari discepolo di Simon Mago, ma non si ha nessuna fonte certa.

In conclusione, Giovanni aveva di fronte a sé dei negatori della divinità di Cristo, della realtà dell’Incarnazione, della realtà della passione, morte e risurrezione di Cristo, un profetismo falso, una pregnosi micidiale, con due direzioni: quella di orientamento encratista (enkràteia: continenza, dominio di sé) che vietava il matrimonio e quella della fornicazione, anch’essa intesa come superiorità sulla carne (gnosi della trasgressione).

La questione della priorità tra le due composizioni
Indubbiamente, c’erano Chiese dell’Asia minore in difficoltà per le dottrine dei falsi dottori e di pseudomistici che le insidiavano spesso dall’interno, ed è a queste che Giovanni annuncia ciò che ha udito dal “Verbo della vita”. Lo scopo è che le comunità in bilico siano in comunione “con noi”, cioè con la Chiesa apostolica. Questo punto (1Gv 1,3) ha fatto pensare che la lettera sia unita strettamente al Vangelo di Giovanni, avendo come scopo la comunione ecclesiale autentica. Non basta infatti avere il Vangelo, occorre anche entrare in comunione viva con chi l’annuncia. Tale comunione avviene con la presenza dell’annunciatore, ma in questo caso l’annunciatore già conosciuto si fa presente con una lettera. Questa osservazione, che scaturisce dal prologo della lettera è importante per la questione della priorità tra le due composizioni.
La convinzione comune del passato era che la lettera fosse di accompagnamento al Vangelo, così sembra già alludere il Canone Muratoriano e Clemente Alessandrino (Eusebio “Contro gli eretici”, VII,25). All’esame critico pare invece che non sia da considerarsi una lettera di accompagnamento o di introduzione al Vangelo di Giovanni; questo esaminando le diverse caratteristiche delle due composizioni. Che le due composizioni siano di indole diversa lo si può benissimo condividere, anzi non lo si può non condividere. Tuttavia, se leggiamo la lettera come appello alla comunione allora si vede come i due scritti, che hanno una loro configurazione, sono strettamente uniti, cosicché il Vangelo è l’annuncio e la lettera è la comunione “con noi”. Senza esitazione si deve dire, esaminando la lettera (1,3; 2,7s; 3,23), che essa presuppone il Vangelo. La lettera poi fa veramente di Giovanni il Teologo dell’amore fraterno in Cristo.

Unità letteraria della lettera
Il tema dell’unità letteraria della lettera è stato sollevato da Ernst von Dobschütz (1870 - 1934) che credette di trovare nella pericope 2,29 - 3,10 dei versetti 2,29; 3,4; 3,6; 3,7s; 3,9s formanti un complesso letterario omogeneo espresso in quattro distici articolati su un parallelismo a stile lapidario, di sfondo semitico. Le altre parti della lettera sarebbero un’elaborazione di questo nucleo. Rudolf Karl Bultmann (1884 - 1976) si pose sulla stessa linea, analizzando i versetti 1,5 - 2,2, trovandovi che nei vv. 1,5a-10, ampliato nei vv. 2,1-2. Da qui Bultmann parte per dire che il resto della lettera sarebbe una rielaborazione di un presunto documento preesistente, più o meno individuabile, fatto di sentenze antitetiche, apodittiche, in prima persona plurale. L’autore della lettera avrebbe ritoccato e alterato nell’ordine le parti dello stesso documento preesistente, poi ci sarebbero stati dei ritocchi della Chiesa primitiva, magari dei discepoli. A questo ritocco redazionale dei discepoli andrebbero riferite alcune presunte interpolazioni.

Herbert Braun si discosta dagli altri due autori prendendo come documento preesistente i testi riguardanti la generazione da Dio e che essi a loro volta siano un misto di due testi. L’autore della lettera però avrebbe influito sul documento preesistente, in altre parti però l’autore della lettera sarebbe stato influenzato dallo stile del documento preesistente. Herbert Preisker aggiunge alla fonte prospettata da Bultmann una seconda fonte di indole escatologica (2,28; 3,2.13.14.19.20.21; 4,17; 5,18.19). Risultano evidenti le differenti individuazioni dell’ipotetico documento preesistente come pure la sua ipotetica elaborazione.
Wolfgang Nauck ha impostato di nuovo tutta la questione. Partendo da Bultmann nota però che i testi attribuiti al documento preesistente sono costituiti da terzine, cinque di queste nella sola pericope 1Gv 1,6-10. Woflgang Nauck aggiunge che lo stesso stile si ritrova nelle altre parti della lettera attribuiti da von Dobschütz e da Bultmann all’elaborazione posteriore. Osserva poi Nauck le parti dove il tristico è palese (2,12s.15.24; 3,16; 4,9.10.13; %,2s.11) e dove è palese la struttura a distico (2,18.19.22; 4,17.18; 5,9). Così Wolfgang Nauck giunge alla conclusione che documento preesistente ed elaborazione successiva hanno lo stesso autore. Questo è un grande passo in avanti rispetto alle precedenti ipotesi-tesi, che complicavano enormemente il processo di composizione della lettera.
Ma non è tutto, perché Friedrich Büchsel ha permesso un altro passo in avanti rilevando che la mescolanza di antitesi dottrinali e brani omiletici-parenetici era fatto caratteristico della letteratura rabbinica. Con ciò, si ritorna all’unità letteraria della lettera mai contestata dalla tradizione (Cf. Giacomo Danesi, “Le epistole di Giovanni”, in “Introduzione alla Bibbia”, V/2, pag. 363-368, ed. Marietti, 1964).

Unità di struttura
La lettera presenta un’unità di struttura non rigida, che si può chiamare ciclica. E’ un ritornare su di un tema già presentato per un suo ampliamento per poi ancora procedere. E’ un noto procedere semitico di forte efficacia. Giovanni riesce così ad esprimere una forte comunicazione diretta al cuore del lettore in Cristo.
La flessibilità di stile si spiega con il fatto che l’autore scrive a volte come pastore e a volte come maestro, e altre volte come profeta. Qualche pericope pare interrompa il filo espositivo, ma non si ha conclusione, ma una ripresa con nuovo argomento. Pure la pericope (4,1-6) non segna un’interruzione, poiché subito riprendere l’aggancio con i lettori con un (4,7): “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri…”, così come era iniziata la pericope (4,1): “Carissimi, non prestate fede…”. tema per poi riprenderne un altro sempre della massima importanza. Così le pericopi 2,16-17. Così la pericope (2,23-24) non appare affatto una chiusura della composizione, ma è una semplice pausa di ripresa; infatti (2,26): “Questo vi ho scritto riguardo…”.

Luogo e data
La tradizione in proposito non ci ha consegnato indicazioni. La tradizione riferisce che il quarto Vangelo fu pubblicato a Efeso verso la fine della vita dell’apostolo (Cf. Sant’Epifanio, ”Contro tutte le eresie”, LI,12,33), dopo il rientro dall’esilio a Patmos (Cf. Ireneo, “Contro gli eretici”, III,1). La lettera con ogni probabilità venne scritta anch’essa a Efeso, come un’ultima donazione (testamento) alle Chiese da lui assistite, e quindi conosciute.

Prologo
1 1 Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – 2 la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, 3 quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. 4 Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena.

Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta”. Il “Verbo della vita”, cioè Gesù Cristo, “era da principio”, cioè era già all’opera quale creatore al principio del mondo, in quanto Verbo eternamente preesistente (Gv 1,1). Lo scrittore si presenta subito come testimone oculare del “Verbo della vita” e ciò con la massima forza non solo per aver visto ma toccato con mano, cioè non si è trattato di una apparizione, ma di una realtà tangibile, qual è stata l’Incarnazione del Verbo. Visto, toccato con mano, ma con stupore, cioè contemplato quale fonte di luce e di vita. Il plurale usato presenta la realtà di comunione della Chiesa in Cristo, e perciò con tutti gli altri testimoni oculari, più in particolare con il gruppo qualificato degli apostoli.
E di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi”. Alcuni autori hanno voluto vedere nel plurale un plurale letterario (maiestatico) (Rudolf Schackenburg e Joseph Chaine), ma è un vero impoverimento della potenza di comunione di cui la lettera è piena. Il plurale colloca Giovanni come appartenente vivo alla Chiesa. E’ la Chiesa una e apostolica (Ap 21,14) quella del “noi” di Giovanni.
Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi”. L’annuncio di Giovanni sta nella sua predicazione in perfetta unione con quella degli altri apostoli scaturendo la predicazione dalla parola di Cristo. Questa dichiarazione, “noi lo annunciamo”, include i tre Vangeli sinottici e il quarto Vangelo (2,7s; 3,23). L’annuncio è rivolto ai lettori perché “siate in comunione con noi”, cioè con la Chiesa una, santa e apostolica, rifuggendo le deviazioni insinuate dai falsi maestri, che indeboliscono e alla fine determinano la rottura con la comunione della Chiesa.
E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo”. Si tratta di una comunione non fondata su di una appartenenza umana, ma di una comunione che viene da Dio per mezzo di Cristo. E’ la comunione dei figli di Dio nel “Figlio suo Gesù”, e perciò comunione di fratelli.
Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena”. L’intenzione dello scritto non è quella di attirare consensi, di aumentare le proprie file, di ottenere prestigio, ma è servizio d’amore, che trova “la nostra gioia sia piena” nella viva comunione.

Camminare nella luce
5 Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna. 6 Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. 7 Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato.

“Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna”. Il messaggio udito da Cristo, dalla presenza del Verbo incarnato, è che Dio è Luce, cioè verità, santità, amore infinito. In lui non ci sono tenebre, oscurità, doppiezze, come Satana fece balenare ad Adamo ed Eva e continuamente fa balenare per portare gli uomini a dubitare di Dio e a ribellarsi a lui.
Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità”. Non si può essere in comunione con Dio e nello stesso tempo accogliere le tenebre dell’errore e camminare in esse. Si è bugiardi quando si dice che, pur disobbedendo a Dio per obbedire al peccato, si cammina nella verità, poiché “non mettiamo in pratica la verità”.
L’uso del plurale indica comunione, coinvolgimento e attestazione che anche Giovanni deve attendere alla sua salvezza. Giovanni non si sottrae alle parole di Gesù (Mt 24,13): “
Chi persevererà sino alla fine, sarà salvato”. Con ciò non esiste la confermazione in grazia, cosicché si diventi immuni dal peccare. Esiste la confermazione, ma come attestazione ripetuta e continua dell’amore di Dio per ciascuno (Cf. 1Cor 1,8; 2Cor 1,21).
Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato”. Dio “è nella luce”, intendendo la luce come lo splendore della sua gloria espressa in Cristo vincitore della morte e del peccato. Camminare nella luce è camminare seguendo Cristo. Chi cammina nella luce è in comunione vera “gli uni con gli altri”, ed è purificato vieppiù dalle tristi debolezze contratte con i peccati. Il peccato compiuto non è senza conseguenze perché non solo toglie la grazia (i peccati mortali) ma indebolisce (e qui giocano anche i peccati veniali diventati comportamento di vita) cosicché il peccatore si trova più debole di prima. Il Sangue di Cristo purifica il peccatore rendendolo più forte poiché non solo è Sangue di perdono, ma è pure Sangue di esempio.

Riconoscere il peccato e confessarlo
8 Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. 9 Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. 10 Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi.
2 1 Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paraclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. 2 È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.


Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi”. E’ superbia dire che si è raggiunto uno stato di impeccabilità, poiché (Gc 3,2) “Tutti pecchiamo in molte cose”. La “gnosi trasgressiva” aveva la pretesa di non contrarre peccato con le sue trasgressioni contro la verità.
Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità”. Il peccato non è tuttavia una trappola da cui non si può uscire, poiché confessando a Dio con umiltà e dolore, nel sacramento della riconciliazione, la propria colpa si incontra la sua misericordia, poiché “egli è fedele e giusto tanto da perdonarci”.
Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi”. Giovanni mentre prima afferma che “se diciamo” di non avere peccato inganniamo noi stessi, ora dice che in tal modo facciamo di Dio un bugiardo, poiché il dominio della carne da lui posto (Cf. Mt 16,24; 26,41; Gv 12,24; Gal 5,16; Rm 8,9) sarebbe dato con menzogna oppressiva, ma ciò non è; e se così si dice di Dio è perché “la sua parola non è in noi” (Cf. Gv 8,37).
Figlioli miei”; Il diminutivo “teknia” è un’espressione di paternità dell’anziano Giovanni, che non valica assolutamente la consapevolezza che essi sono figli di Dio, già generati a Dio mediante l’evangelizzazione e il Battesimo (Cf. Gv 1,12). L’espressione “figlioli miei” ha, tuttavia, il significato di una generazione; non è semplice tenerezza. Le comunità alle quali si rivolge Giovanni non erano state evangelizzate in primis da lui, ma Giovanni vide, dopo l’esilio a Patmos, la necessità di una nuova azione evangelizzatrice (1,2-3).
Possiamo pensare che Giovanni si rifaccia al rapporto d’insegnamento tra il padre e il figlio, circa l’alleanza del Sinai (Cf. Es 10,2; 13,14; Dt 4,9; 6,20; 11,19; 29,21; 32,46; Tb 14,8), traferito, come modello, nella letteratura sapienziale (Pr 1,8; ecc.; Qo 12,12; Sir 2,1; ecc.). Tutto ciò, tuttavia, è stato portato a perfezione e riformulato in novità assoluta da Gesù, che chiamò gli apostoli “
figlioli” nel discorso di addio (Gv 13,33), dopo l’istituzione dell’Eucaristia. E’ il maestro che parla ai discepoli, ma anche il padre che li genera a Dio per mezzo della sua vita, data nel dono della presenza Eucaristica; dono a cui rimase fedele sulla croce, poiché non tornò indietro riprendendolo (Mt 26,26s; Mc 14,22s; Lc 22,19): “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo (…). Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza”. Giovanni si rifà a Gesù, dipendendo da Gesù, subordinatamente a Gesù, e portando gli uomini a Gesù.
Così Paolo genera in Cristo Gesù mediante il Vangelo (1Cor 4,14) e partecipando, con la forza dello Spirito di Cristo ai patimenti di Cristo (Col 1,24). Paolo genera anche una seconda volta i Galati (4,19), già generati in Cristo, con la potenza dello Spirito e del Vangelo.
Giovanni è di fronte alla necessita di una nuova evangelizzazione, nuova nella potenza, nuova nella ricchezza, nuova nella generosità a soffrire per il Vangelo (Cf. 2Tim 1,8), per questo genera e può chiamare figliolini coloro ai quali sta consegnando la parola di Cristo e la sua vita.
Vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paraclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto”. Il plurale di comunione, di compartecipazione nel seguire Cristo approda a un dolcissimo “Figlioli miei”. Giovanni passa al singolare personale per stabilire una ancor più intensa comunicazione personale: il filo conduttore della lettera è l’amore. “Un Paraclito” (avvocato): è Cristo. Anche lo Spirito Santo è detto “Paraclito”, ma è “un altro Paraclito” (Gv 14,16) perché ha una missione diversa ma pienamente concordante. Lo Spirito Santo, che “abita in voi” (Rm 8,9), sostiene, in chi obbedisce con amore alla verità, la preghiera e in tal modo è nostro avvocato (Rm 8,26).
È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”. Giovanni ritorna al plurale di comunione, focalizzando i lettori a Cristo, “vittima di espiazione per i nostri peccati”. Giovanni precisa “ma anche per quelli di tutto il mondo”, per correggere una non comprensione delle parole di dolore espresse da Gesù nell’ultima cena (Mt 26,28; Mc 14,24): “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati”. Queste parole, se non capite, direbbero che Cristo è morto non per la salvezza di tutti gli uomini, ma solo di una parte. La realtà è però ben altra, ed è che Cristo è morto per tutti, ma il suo sangue sceso su tutti cuori ne ha trovati tanti e ne ha visti tanti nel futuro, chiusi ad esso. “Di tutto il mondo”, è l’affermazione chiara della portata universale dell’opera della salvezza, che non esclude nessun popolo o razza. Nella celebrazione eucaristica il sacerdote dice “per voi e per tutti”, e dice il vero. Il “per molti” è assolutamente legato al dolore di Gesù, che va compreso e da noi compartecipato nel vedere che tanti annullano per se stessi la salvezza.

Osservare i comandamenti
3 Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. 4 Chi dice: ‹Lo conosco›, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. 5 Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui. 6 Chi dice di rimanere in lui, deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato.

Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti”. La virtù più specifica di Cristo è l’obbedienza alla volontà del Padre. Così senza l’obbedienza a Dio, la cui Parola suprema è Cristo (Eb 1,2) non c’è salvezza. (Mt 7,21): “Non chiunque mi dice: ‹Signore, Signore›, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. Queste parole sono ineludibili, e vanno unite a queste parole (Mt 11,30): “Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”. Il comandamenti non sono altro che comandamenti d’amore, nessuno eccettuato sia che espresso in forma positiva, che in forma negativa. Il Vangelo di Giovanni presenta la indissolubile connessione tra amore a Cristo e obbedienza ai suoi comandamenti (Gv 14,15): “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti”; (Gv 15,10): “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore”. I comandamenti dati a Mosè ora sono dati in Cristo ad un livello immensamente più alto (Mt 5,20s), poiché Cristo ha portato a compimento l’economia della grazia (Gv 1,17), costituendo il cuore dei credenti in lui in tempio dello Spirito Santo; così la Grazia è innanzitutto Dio in noi (1Cor 3,16; 2Cor 6,16; Ef 2,22), con la ricchezza della grazia santificante e dei sette doni dello Spirito Santo.
Chi dice: ‹Lo conosco›, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità”. Per la terza volta Giovanni usa la parola bugiardo, una parola netta che coglie la malafede di chi rinnega la verità.
Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui”. La parola di Dio è rivelazione del suo amore e comandamento d’amore, chi la osserva “in lui l’amore di Dio è veramente perfetto”. “E veramente perfetto”; quando si tende all’infinito alla perfezione dell’amore, sapendo che l’amore sarà perfetto nel cielo quando il peso della carne non ci sarà più e si vedrà Dio “così come egli è” (3,2).
Chi dice di rimanere in lui, deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato”. Giovanni ripete, ma non in maniera identica; c’è sempre una qualche nota di amore e di luce in più in quanto scrive. Non si può sfuggire poiché chi dice di “rimanere in lui”, i falsi maestri volevano vantarsi di questo, ma la realtà li smentiva perché “comportarsi come lui si è comportato” significa obbedire all’Amore (4,8).

Il nuovo comandamento
7 Carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto da principio. Il comandamento antico è la Parola che avete udito. 8 Eppure vi scrivo un comandamento nuovo, e ciò è vero in lui e in voi, perché le tenebre stanno diradandosi e già appare la luce vera. 9 Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. 10 Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo. 11 Ma chi odia suo fratello, è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi.

Carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto da principio”. Giovanni non sta tracciando “un nuovo comandamento”, ma “un comandamento antico” già ricevuto nella catechesi battesimale: “Il comandamento antico è la Parola che avete udito”.
Eppure vi scrivo un comandamento nuovo, e ciò è vero in lui e in voi, perché le tenebre stanno diradandosi e già appare la luce vera”. Il comandamento antico è “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv 19,18; Mc 12,31), dove nel prossimo Gesù ha incluso anche i nemici e i persecutori (Mt 5,44s). Eppure tale comandamento antico, antico perché ricevuto nella catechesi, ha la possibilità di arrivare ad essere nuovo. E il “comandamento nuovo” è “vero in lui e in voi”, poiché Gesù l’ha vissuto e lo ha dato ai suoi, e quindi è da vivere perché “è vero”. Inoltre il “comandamento nuovo” ora deve essere vissuto in quanto i credenti hanno già fatto un cammino intravvedendo la Luce, poiché ancora avevano velature di tenebre, ma ora esse si sono diradate in modo tale che già “appare la luce vera". Ciò vuol dire che Cristo, conosciuto per dottrina ricevuta, ora è conosciuto anche per esperienza viva. Il “comandamento nuovo” è già noto per chi conosceva il Vangelo di Giovanni, come, appunto, i lettori della lettera (Gv 15,12). Il termine di riferimento non è più l’amore verso se stessi, che non viene rinnegato, ma è l’amore che Gesù ha avuto per noi; il che vuol dire che l’amore in Cristo non si può fermare all’ascolto del proprio sé, ma sempre crescere.
Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre”. I falsi cristiani sostenevano di essere nella luce e quindi di non vivere nelle tenebre, ma intanto erano arroganti e disprezzavano i fratelli fino alla durezza dell’odio; perciò le tenebre non si erano dissolte in loro, come pretendevano, ma infittite tanto da non vedere più la Luce. L’odio per “suo fratello” li denunciava come falsi. Si deve notare come Giovanni dica che realmente coloro che hanno ricevuto il Battesimo sono fratelli in Cristo, infatti dice: “suo fratello” e lo ripeterà più volte nella lettera. Tuttavia, Giovanni ha presente tutto il prossimo, tutti gli uomini poiché Cristo è (2,29) “la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”.
Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo”. Chi ama “suo fratello” rimane nella luce (Gv 6,12) poiché “non vi è in lui occasione di inciampo”. L’inciampo si stabilisce e radica quando cade l’amore per il fratello, e ciò perché non si vive in Cristo, disprezzando l’obbedienza alla verità. Gesù vuole tutti salvi e non cessa di operare per questo (Gv 6,39) e chi si perde lo è per colpa sua.
Ma chi odia suo fratello, è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi”. Chi odia “suo fratello” è nelle tenebre, accecato dalle tenebre e “non sa dove va”, non solo perché ha lasciato la via, che è Cristo, ma perché non sa dove sta andando, non pensa all’orrore eterno verso il quale liberamente si sta dirigendo (Cf. At 1,25).

La vita nuova dei destinatari della lettera
12 Scrivo a voi, figlioli,
perché vi sono stati perdonati i peccati in virtù del suo nome.
13 Scrivo a voi, padri,
perché avete conosciuto colui che è da principio.
Scrivo a voi, giovani,
perché avete vinto il Maligno.
14 Ho scritto a voi, figlioli,
perché avete conosciuto il Padre.
Ho scritto a voi, padri,
perché avete conosciuto colui che è da principio.
Ho scritto a voi, giovani,
perché siete forti
e la parola di Dio rimane in voi
e avete vinto il Maligno.

Scrivo a voi, figlioli, perché vi sono stati perdonati i peccati in virtù del suo nome”. Figlioli (teknia) sono i destinatari della lettera esposti alle insidie dei falsi maestri, perché la prima evangelizzazione data ai padri non era più sufficiente. Per i pericoli sopraggiunti era necessaria una nuova evangelizzazione, ancora più potente della già ricevuta, e questo fece Giovanni, l’ultimo degli apostoli restato in vita. Essi avevano ricevuto il Battesimo, ma avevano bisogno di padri che li generassero ad una vita cristiana capace di vincere le eresie e di promuovere il Vangelo pur in mezzo alle difficoltà. Anche oggi tantissimi battezzati hanno bisogno di padri che li generino ad una vita cristiana intensa.
Scrivo a voi, padri, perché avete conosciuto colui che è da principio
”. I padri sono i capofamiglia. La famiglia ha una sua unità intrinseca che non va toccata, ma solo lievitata. I padri non hanno anteposto se stessi ai figli poiché hanno “conosciuto colui che è da principio” (Cf. Mt 10,37).
Scrivo a voi, giovani, perché avete vinto il Maligno”. I giovani “neaniscoi” hanno vinto il Maligno con le sue tentazioni agitanti la carne.
Ho scritto a voi, figlioli, perché avete conosciuto il Padre”. I figlioli “Paidia”, si potrebbe tradurre con figliolini. Essi hanno conosciuto il Padre, e grazie a ciò hanno un rapporto con il padre terreno secondo lo Spirito (Mt 11,37).
Ho scritto a voi, padri, perché avete conosciuto colui che è da principio”. Ora Giovanni passa al tempo passato che è il tempo del lettore nei suoi confronti, cioè il lettore si rapporta al momento nel quale Giovanni scrisse.
Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti e la parola di Dio rimane in voi e avete vinto il Maligno”. Giovanni cambia il tempo dal presente al passato anche con i giovani neaniscoi, certo che essi sono “forti e la parola di Dio rimane in voi”. Essi ora hanno vinto il Maligno perché hanno accolto la Parola ed essa rimane in loro (Cf. Gv15,7).

Guardarsi dal mondo e dagli anticristi
15 Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; 16 perché tutto quello che è nel mondo - la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita - non viene dal Padre, ma viene dal mondo. 17 E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!
18 Figlioli, è giunta l’ultima ora. Come avete sentito dire che l’anticristo deve venire, di fatto molti anticristi sono già venuti. Da questo conosciamo che è l’ultima ora. 19 Sono usciti da noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; sono usciti perché fosse manifesto che non tutti sono dei nostri. 20 Ora voi avete ricevuto l’unzione dal Santo, e tutti avete la conoscenza. 21 Non vi ho scritto perché non conoscete la verità, ma perché la conoscete e perché nessuna menzogna viene dalla verità. 22 Chi è il bugiardo se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L’anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio. 23 Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre.
24 Quanto a voi, quello che avete udito da principio rimanga in voi. Se rimane in voi quello che avete udito da principio, anche voi rimarrete nel Figlio e nel Padre. 25 E questa è la promessa che egli ci ha fatto: la vita eterna.
26 Questo vi ho scritto riguardo a coloro che cercano di ingannarvi. 27 E quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca. Ma, come la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera e non mentisce, così voi rimanete in lui come essa vi ha istruito.
28 E ora, figlioli, rimanete in lui, perché possiamo avere fiducia quando egli si manifesterà e non veniamo da lui svergognati alla sua venuta. 29 Se sapete che egli è giusto, sappiate anche che chiunque opera la giustizia, è stato generato da lui.

Non amate il mondo, né le cose del mondo!”. Il mondo per Giovanni è la realtà sociale degli uomini segnata dal peccato. In sé e per sé la realtà sociale è una cosa buona perché viene da Dio, ma gli uomini la vivono nelle deformazioni del peccato. Questa realtà non va amata perché appiattisce alla terra con le seduzioni di cui è capace: “le cose del mondo”.
Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui”. Amare il mondo significa credere che esso dia appagamento, riposo, successo, gloria. In tal modo, si misconosce fino al rifiuto tutto ciò che è di Dio e che Dio propone e dona. Amare il mondo è accettare di ascoltare la carne, le astuzie che suggerisce, le sue posizioni di orgoglio, la lotta mossa dall’invidia camuffata per lotta di giustizia, infatti il mondo è bugiardo. Rende lieto un attimo di carne e poi rende tragica la fine. Satana ti dà un’ora di trionfo sulla terra, ma ti chiede di dargli l’eternità.
Perché tutto quello che è nel mondo - la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita - non viene dal Padre, ma viene dal mondo”. La carne brama il soddisfacimento dei suoi impulsi disordinati. Così gli occhi bramano il luccichio delle ricchezze, e perciò perseguono l’illeceità, l’invidia, l’avarizia, l’oppressione, la violenza. “La superbia della vita” è la scelta di innalzarsi sugli altri per asservirli, per godere dei loro applausi, della loro invidia; è la ricerca della notorietà, del culto, più o meno ostentato o più o meno camuffato, della propria persona.
E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!”. Ma il mondo passa, non è eterno. Passa non solo perché il tempo terminerà alla fine del mondo, ma passa perché dopo avere dato un istante di falsa gloria, fugge beffardo da chi ha illuso, e gli dà spaventi di vuoto e di morte. Chi si fonda in Dio e gli obbedisce rimane in eterno, poiché Dio non delude, le sue promesse non vengono meno mai.
Figlioli, è giunta l’ultima ora. Come avete sentito dire che l’anticristo deve venire, di fatto molti anticristi sono già venuti”. Giovanni usa ora il termine ”paidia" per tutti i fedeli. “Paidia" è parola di maggiore dolcezza che
teknia": è il padre che, maestro, parla ai figli a cuore aperto, quasi sostenendoli perché non vacillino di fronte a parole così forti.
L’ultima ora è cominciata con la presenza di Cristo. Le ore dei patriarchi, dei profeti, sono passate, ora si è nell’ultima ora e si deve vivere l’ultima ora, che il presente di Cristo (Cf. At 2,17; 2Tim 3,1; Eb 1,2; Gc 5,3; 1Pt 1,5.20; 2Pt 3,3; Gd 18). Essendo l’ultima ora, cioè l’ora nella quale Satana è stato buttato fuori. L’ultima ora è caratterizzata da una lotta perversa al massimo di Satana contro Cristo, mediante gli anticristi, che culmineranno nell’anticristo, che sarà il figlio di Satana, manifestazione dell’orrore di Satana. Già anticristi sono apparsi, e sono precisamente i falsi dottori che negavano Cristo. Satana, principe usurpatore, è stato buttato fuori, cioè l’usurpatore è stato sconfitto; con ciò cerca furentemente di lottare contro chi l’ha buttato fuori, ma non riuscirà a vincere Cristo e sarà annientato da lui che dissolverà in una sconfitta totale il potere costruito con gli anticristi, suoi perversi servi (2Tes 2,8).
Da questo conosciamo che è l’ultima ora”. L’ultima ora è segnalata dalla battaglia finale, dalla furente voglia di vendetta di Satana contro Cristo che l’ha buttato fuori. Gli anticristi sono messi in campo da Satana dopo che si sono consegnati a lui. Sono anticristi non solo quelli che negano Cristo, ma anche quelli che negano la Chiesa, che sussiste nella sua pienezza nella Chiesa cattolica (“Lumen Gentium”, c. 8, [305]; “Unitatis reintegratio”, c. 3, [507]; “Dominus Jesus”, c. 4, n° 16).
Sono usciti da noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; sono usciti perché fosse manifesto che non tutti sono dei nostri”. Gli anticristi hanno la drammatica particolarità di avere conosciuto il messaggio di Cristo ed è per questo che la loro azione è perversa. Non sono pagani che combattono la fede cristiana, ma gente che è stata dentro le comunità cristiane e ne ha rinnegato la fede. Ma ciò non è avvenuto perché Cristo non sia convincente, potente nella sua azione salvifica, nella prospettiva della sua speranza, ma perché gli anticristi erano animati dall’anticarità, non erano fratelli coi fratelli. Sono usciti dalla comunione fraterna, che non avevano vissuto perché entrati per opportunismi, per desideri economici, di successo, e con ciò è diventato chiaro “che non tutti sono dei nostri”. Ciò comporta vigilanza, attenzione, valutazione dei comportamenti, prima di dare credito a persone, che poi faranno danni. Certamente, l’evangelizzazione aveva avuto nelle comunità asiatiche una ricerca del numero delle adesioni a discapito di una discernimento prima di ammettere al Battesimo.
Ora voi avete ricevuto l’unzione dal Santo, e tutti avete la conoscenza”. I cristiani non sono però sguarniti di fronte a questo doloroso fenomeno avendo ricevuto “l’unzione dal Santo”. L’unzione è quella data dal Santo, che è Cristo, Sommo Sacerdote (At 2,27; 3,14; Gv 6,69; Ap 3,7; Ps Eb 8,26). L’unzione è santificatrice e avviene per mezzo dell’olio spirituale dello Spirito Santo. Essa è conferita per mezzo del ministero dei presbiteri, che agiscono “in persona Cristi
Lo Spirito Santo era conferito dagli apostoli con l’imposizione delle mani (At 8,17; 19,6). L’azione dei presbiteri avviene “in persona Cristi”, poiché è lui il Sommo ed Eterno sacerdote.
L’unzione con olio - crismazione - venne aggiunta dalla Chiesa nel sec. III, sulla scorta delle unzioni consacratorie regali e sacerdotali Veterotestamentarie (Es 29,29; 30,30; 1Sam 16,13).
Lo Spirito Santo con “
la sua unzione” (2,27) conduce a tutta intera la verità (Gv 14,25; 16,13) e perciò dona la conoscenza di Cristo e delle verità che ne definiscono l’identità e la missione (Gv 14,21.23).
Non vi ho scritto perché non conoscete la verità, ma perché la conoscete e perché nessuna menzogna viene dalla verità”. Giovanni non sta facendo il “primo annuncio”, ma vuole premunire i fedeli contro gli anticristi, facendo vedere come nell’unzione dello Spirito ne abbiano i mezzi.
Chi è il bugiardo se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L’anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio”. Negare che Gesù sia il Cristo, è negare che sia il Messia promesso, e quindi separarlo dalle Scritture. Gli anticristi mentono perché conoscono le Scritture, e la testimonianza apostolica, come quella della Chiesa. Ma non solo negano che Cristo sia il Messia atteso, ma anche che sia il Figlio di Dio; infatti: “L’anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio”.
Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre”. Chi “nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre”; parole queste rivolte a chi credeva di avere accesso al Padre rifiutando Cristo, perché odiatore della croce di Cristo. Chi crede nel Figlio e ne professa la fede “possiede anche il Padre”; infatti i due non si possono separare perché sono “una cosa sola” (Gv 10,30).
E questa è la promessa che egli ci ha fatto: la vita eterna”. Gesù è il “Verbo della vita” (1,1), che toglie all’uomo la morte: quella interiore (Cf. Mt 8,22; Lc 15,24; Rm 6,23; Ap 3,1) e quella fisica. Il “Verbo della vita” dona, nella grazia dello Spirito Santo, inabitante nel credente che fa la volontà di Dio, la partecipazione in Lui, con Lui, per Lui, alla vita Trinitaria, e ciò è la vita eterna perché Dio è vita e eternità. Nel tempo avviene nella fede (3,15) (Gv 3,16; 6,47; 17,3); nel cielo avviene nella pienezza della visione (3,2).
La vita eterna include strettamente la risurrezione gloriosa per chi ha accolto Cristo e ne ha vissuto la parola; non così per chi rifiuta Cristo; (Dn 12,2): “
Gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna”.
Questo vi ho scritto riguardo a coloro che cercano di ingannarvi. E quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca”. “L’unzione che avete ricevuto da lui rimane” L’unzione è avvenuta con l’olio spirituale dello Spirito Santo, che ha come effetto la presenza stabile dei suoi sette doni (Is 11,2; 42,1; 61,1; Lc 4,18). Dopo avere ricevuto l’annuncio del Vangelo e la catechesi battesimale i cristiani hanno l’azione dello Spirito Santo, ciò nella comunione con la Chiesa e nell’ascolto del magistero (4,6). Tale azione li rende avvertiti degli errori dei falsi maestri fino al punto di poterli confutare. Essi posseggono la conoscenza della Verità (2,24) e nessuno può dire di avere qualcosa di diverso da insegnare (Gv 6,45; Gal 1,8; Eb 8,11), traendo così in inganno.
Ma, come la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera e non mentisce, così voi rimanete in lui come essa vi ha istruito”. “La sua unzione” L’unzione essendo avvenuta con olio spirituale coincide con l’azione dello Spirito Santo; essa non mente, non allontana da Dio, ma illustrando la Verità rende saldi i credenti di fronte alle menzogne degli anticristi.
E ora, figlioli, rimanete in lui, perché possiamo avere fiducia quando egli si manifesterà e non veniamo da lui svergognati alla sua venuta”. “Figlioli” (teknia). “Rimanete in lui”. Giovanni rimanda immediatamente alle parole di Gesù (Gv 15,7): “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi”. Rimanere in lui significa amarlo accogliendone l’esempio e la Parola, traducendo tutto in realtà di vita. Rimanere in lui è vivere nella consapevolezza che senza di lui non si può fare nulla di ciò che egli ha presentato. Rimanere in lui è rimanere nella salvezza da lui portata, cosicché “quando egli si manifesterà” non saremo rigettati.
Se sapete che egli è giusto, sappiate anche che chiunque opera la giustizia, è stato generato da lui”. Cristo ci può chiamare “figlioli” - teknia - (Gv 13,33) poiché con la sua morte di croce ci ha generati a figli adottivi di Dio, secondo la volontà del Padre. Egli è l’inviato del Padre con la missione di farci figli di Dio, per mezzo dell’espiazione delle nostre colpe. Siamo figli solo nel Figlio, poiché Adamo era solo una figura di Cristo (Rm 5,14); così anche in assenza del peccato originale saremmo stati figli di Dio per l’Incarnazione del Figlio. In tal caso l’Incarnazione sarebbe stata per la nostra gloria, ora è per la nostra salvezza, a cui segue la gloria eterna.
Si è figli di Dio se si rimane in Cristo, cioè se si compie la giustizia dettata e vissuta da lui (Mt 5,29; Gv 1,12).


Figli di Dio
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Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. 2 Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!”. Il Padre ha tanto amato il mondo da dare, da mandare il suo Figlio ed è nel Figlio che noi siamo chiamati figli. Nessun uomo poteva autoproclamarsi figlio di Dio, solo su rivelazione di Dio questo poteva avvenire. Infatti nessuno, se non Gesù, poteva dirci che quando ci rivolgiamo all’Eterno lo chiamassimo Padre nostro. Esplicitamente poi Gesù ha detto (Gv 20,17): “Va’ dai miei fratelli e dì loro: ‹Salgo al Padre mio e Padre vostro›”. E’ Gesù stesso che ci ha “chiamati figli di Dio”.
Tale identità di figli adottivi non è una realtà esterna che non tocca la realtà umana, ma “lo siamo realmente”. Ciò vuol dire che diveniamo partecipi - per sola partecipazione - della natura divina (2Pt 1,4). Tale elevazione a figli non è stata solo udita, ma è vissuta, poiché (Rm 8,16): “
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio”.
Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui”. Passo primo per riconoscere la novità della presenza dei cristiani è quella di riconoscere il Creatore buono, giusto, provvidente. L’evangelizzazione ha sempre bisogno di questo punto e vi deve condurre, se si vuole procedere con l’annuncio di Cristo. Annunciare Cristo senza che ci sia l’accoglienza del Creatore, significa fare assorbire Cristo nella mitologia pagana. Tutti gli uomini possono giungere a lui. E’ illuminante a questo proposito la predicazione di Paolo presso i pagani (Rm 1, 20. Sap 13,1s Sir 17,8 At 17,24s 1 Cor 1,21). La predicazione di Paolo data ai pagani immersi nelle mitologie dice che esse non sono un passaggio del pensiero umano verso forme più alte di pensiero, ma un abbassamento delle capacità intellettive dell’uomo.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato”. Essere figli di Dio già al presente non significa essere giunti a una realtà non suscettibile di crescita, anzi deve crescere nel ricco cammino della fede la nostra appartenenza a Dio, sapendo che ci sarà un epilogo trionfale in cielo di cui al presente non ci è data rivelazione se non nel fatto che Dio "lo vedremo così come egli è”. (1Cor 13,12) “Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”. “Si sarà manifestato”, attraverso la comunicazione del lumen gloriae. L’accesso alla visione di lui sorpassa le forze umane e anche quelle della grazia: occorre un’azione divina (lumen gloriae) per potere accedere alla visione dell’Essenza divina.

La devastazione dell’anticarità
3 Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro. 4 Chiunque commette il peccato, commette anche l’iniquità, perché il peccato è l’iniquità. 5 Voi sapete che egli si manifestò per togliere i peccati e che in lui non vi è peccato. 6 Chiunque rimane in lui non pecca; chiunque pecca non l’ha visto né l’ha conosciuto.
7 Figlioli, nessuno v’inganni. Chi pratica la giustizia è giusto come egli è giusto. 8 Chi commette il peccato viene dal diavolo, perché da principio il diavolo è peccatore. Per questo si manifestò il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo. 9 Chiunque è stato generato da Dio non commette peccato, perché un germe divino rimane in lui, e non può peccare perché è stato generato da Dio. 10 In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, e neppure lo è chi non ama il suo fratello.
11 Poiché questo è il messaggio che avete udito da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. 12 Non come Caino, che era dal Maligno e uccise suo fratello. E per quale motivo l’uccise? Perché le sue opere erano malvagie, mentre quelle di suo fratello erano giuste.
13 Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia. 14 Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. 15 Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui.
16 In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. 17 Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio? 18 Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
19 In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, 20 qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. 21 Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, 22 e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
23 Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. 24 Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.


Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro”. La speranza di giungere a vedere Dio così come egli è vuol dire desiderio di lui e ciò è amore. L’amore purifica perché tende all’Amore, e Dio è puro nel suo amore, “in lui non c’è tenebra alcuna” (1,5).
Chiunque commette il peccato, commette anche l’iniquità, perché il peccato è l’iniquità”. Il peccato è l’iniquità, cioè offesa a Dio, disprezzo di Dio, contaminazione di sé, ma i falsi maestri, gli anticristi di quel tempo diffondevano l’idea che la trasgressione non contaminasse lo spirito, ma la trasgressione fosse veicolo di conoscenza, poiché conoscendo il male si stimava meglio il bene. L’antico peccato di volere essere come Dio nella conoscenza del bene e del male sfociava in questa perversa sistemazione gnostica (Cf. Ap 2,24).
 “
Voi sapete che egli si manifestò per togliere i peccati e che in lui non vi è peccato”. Ora Cristo è venuto per togliere il peccato, non per promuoverlo per una conoscenza, in contrapposto, della luce, poiché radicalmente “in lui non vi è peccato”. La conoscenza del male che ha Dio non è abbraccio del male, ma unicamente conoscenza della diminuzione del bene. Il male non può nulla contro Dio. L’uomo invece conoscendo il male, cioè desiderandolo, facendolo, diventa schiavo del male.
Chiunque rimane in lui non pecca; chiunque pecca non l’ha visto né l’ha conosciuto”. Fin tanto che uno rimane unito a Cristo nella fede, nella speranza, nella carità, nell’obbedienza, non pecca. L’atto del peccato è sempre preceduto da una separazione da Dio. Chi pecca non può dire di averlo visto e neppure conosciuto perché a lui si sia rivelato, come pretendeva la gnosi, dicendo di avere raggiunto la conoscenza intuitiva di Dio tramite l’iniziazione a dottrine esoteriche. Si deve notare come gli errori della gnosi erano micidiali.
Figlioli, nessuno v’inganni. Chi pratica la giustizia è giusto come egli è giusto”. “Figlioli(teknia). L’inganno è sempre quello rilevato prima: ritenersi nella giustizia praticando l’ingiustizia, la trasgressione dalla Legge di Cristo (anomia).
Chi commette il peccato viene dal diavolo, perché da principio il diavolo è peccatore”. La realtà che spinge l’uomo al peccato e che lo tiene legato al peccato illudendolo di essere libero è il diavolo. Il diavolo spinge l’uomo a peccare e non cambia, anche se si presenta in veste benevola, “perché da principio il diavolo è peccatore”. “Da principio”, poiché anche prima della creazione dell’uomo egli è stato ribelle a Dio, anche prima di avere agito nel paradiso terrestre è ribelle a Dio. Lo divenne per sua liberissima scelta, e vi permane perché serrato in questo, avendo esaurito con il suo peccato ogni sua possibilità al bene, senza nessun pentimento. Satana è il principio di ogni azione contro Cristo, perché il suo peccato fu quello di rifiutare il mistero dell’Incarnazione. Porre Satana in un quadro di redenzione è impossibile perché “da principio è peccatore”; pregare per la conversione di Satana è già essere finiti nelle sue spire. La gnosi arrivava a pensare che Satana fosse una vittima del Principio malvagio creatore della materia e che il suo insegnamento ad Adamo ed Eva fosse buono.
Per questo si manifestò il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo”. Per distruggere le opere del diavolo è stata necessaria la venuta del Figlio, contro il quale Satana si è abbattuto con ogni violenza ed è stato sconfitto: l’amore ha vinto l’odio.
Chiunque è stato generato da Dio non commette peccato, perché un germe divino rimane in lui, e non può peccare perché è stato generato da Dio”. E’ una reiterazione di quanto detto in (3,6), ma non è senza sfumatura di novità. Infatti, qui l’accento è sulla potenza redentrice di Dio per mezzo di Cristo. Tale potenza redentrice produce una generazione che fa sì che “chiunque è stato generato da Dio non commette peccato”. La ragione è che tale generazione ha comunicato “un germe divino che rimane”, poiché Dio è fedele. “Il germe divino” è come tale una realtà in crescita. Questo germe viene irrigato continuamente dalla grazia, affinché cresca in poderosa pianta di santità. Dio è fedele e potente (Gv 6,39): se uno si strappa da lui sedotto da Satana è per sua libera e tragica iniziativa.
In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, e neppure lo è chi non ama il suo fratello”. Giovanni rilancia quanto ha già detto sulla giustizia (2,29; 3,7), ma lo arricchisce di accentuazione fondamentale: l’amore al fratello. Può esservi infatti un uomo che vive formalmente la giustizia, ma se non ama il fratello, la sua giustizia è ipocrisia. Il discriminante tra i figli di Dio e i figli del diavolo è una giustizia che sottolinea fortemente l’amore al fratello.
Giovanni con questo passaggio dice che ogni disposizione, ogni comandamento ha come nucleo l’amore (Mt 22,37-40): “
Amerai il Signore Dio tuo (…). Amerai il tuo prossimo (…). Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”. Giovanni non rimuove la giustizia in nome dell’amore, poiché la giustizia rimane; essa è necessaria, perché regola i rapporti tra gli uomini, ma non può non essere informata dall’amore, altrimenti è il fariseismo, il legalismo (Mt 5,17-20s; 6,1s). Il legalismo si ha precisamente quando la legge sopravanza l’amore. La giustizia procede dai comandamenti di Dio, ma senza l’amore la giustizia diventa ipocrisia.
Giovanni ha già affermata la giustizia come valore base, ma sottolinea, contro le derive legaliste, che l’amore è il nucleo vivo della giustizia. Il primo e secondo comandamento sono comandamenti d’amore, ma anche sono giusti, perché amare Dio che ci ha creati e redenti, è cosa giusta; e amare il prossimo è cosa giusta, poiché amato da Dio e col quale si deve vivere nella pace e nell’aiuto reciproco.
In particolare, le leggi canoniche della Chiesa assolutamente non vanno viste come legalismo, bensì come norme che salvaguardano e promuovono, certo la giustizia, ma mai separatamente dall’amore.
Poiché questo è il messaggio che avete udito da principio: che ci amiamo gli uni gli altri”. Fin dal primo annuncio evangelico era stato presentato il comandamento della carità fraterna, poiché Cristo è venuto per far sì che gli uomini non vivano più insieme per forza, ma per amore, come figli di Dio e fratelli suoi. Tale “comandamento antico” Cristo l’ha reso nuovo presentando come riferimento della carità fraterna l’amore dato da lui agli uomini, fino al sacrificio di sé. E’ al comandamento nuovo che ora Giovanni fa riferimento (2,7; Gv 15,12).
Non come Caino, che era dal Maligno e uccise suo fratello. E per quale motivo l’uccise? Perché le sue opere erano malvagie, mentre quelle di suo fratello erano giuste”. Al disamore verso Dio si aggiunge con l’uccisione di Abele da parte di Caino, il disamore per il fratello, giungendo così alla compiutezza dell’odio, poiché Adamo ed Eva pur peccatori e nel disordine non si odiarono. L’odio verso l’altro ha in sé l’odio contro Dio, e raggiunge per questo la compiutezza dell’odio. (4,9-10.21)
La ragione di quell’omicidio fu l’invidia. Abele venne benedetto negli armenti da Dio, Caino invece non venne benedetto da Dio nelle messi.
Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia. Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte”. Il mondo odia l’amore, poiché odia Dio che è Amore. L’odio è morte perché odia Dio, che è vita. Il segno del passaggio dal mondo a Cristo è l’amore per i fratelli. Amore che scaturisce dall’essere in Cristo, e quindi nell’imitazione viva di lui. Il mondo, nella sua superbia, ritiene strano il comportarsi secondo Cristo (1Pt 4,4).
Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui”. Giovanni intende l’odiare il fratello come odiarne innanzitutto la santità, così come fa il mondo. L’odio mira a sopprimere, e chi odia cerca di uccidere il fratello contaminandone il cuore con la menzogna, per asservirlo a sé.
L’omicida prima di uccidere ha già ucciso se stesso perché non “
ha più la vita eterna che dimora in lui”. La vita eterna è partecipazione alla vita divina, e tale partecipazione la si ha nella fede, per la presenza di Dio, che “dimora” nel cuore.
In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”. Amore è una parola stupenda, ma il mondo la carica di egoismo, svisandola. L’amore è stato conosciuto in ciò che Cristo ha fatto per noi “egli ha dato la sua vita per noi”. L’amore si sostanzia dell’esempio di Cristo, e con ciò non può essere equivocato con la concupiscenza (2,16).
Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?”. L’amore è concreto, vuole i fatti, e se questi non ci sono non c’è l’amore: “Come rimane in lui l’amore di Dio?”.
Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità”. “Figlioli” (teknia). Amare a parole e con toni dolci, “parole” e “lingua”, senza che ci siano i riscontri concreti è ingannare. L’amore non può che essere nella verità, non nella finzione. Ci possono essere delle buone azioni, ma se non sono nella verità servono per ingannare e far passare l’errore. Le opere dei fratelli sono veritiere se compiute in Cristo e nell’unione con la Chiesa (Mt 10,40; Mc 9,37; Lc 10,16; Gv 13,20). L’amore si sostanzia dell’esempio di Gesù e perciò di sacrificio; dai sacrifici più piccoli - donare un po’ del proprio tempo, ascoltare le sofferenze, istruire, consolare, aiutare, pregare per i bisognosi e per quelli che sono nel peccato grave, ecc. - fino a quello estremo di “dare la vita per i fratelli” (Gv 15,13).
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri”. Dall’amare nei fatti e nell’obbedienza alla verità si riconosce di appartenere alla Verità “siamo dalla verità”. Il cuore può rimproverare tante, piccole o meno piccole, mancanze (peccati veniali e imperfezioni), ma dall’amare nei fatti e nella verità il cuore viene rassicurato di essere in comunione con Dio. “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. 21 Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito”. Dio è misericordioso e subito ci perdona e attira a sé perché “Dio è più grande del nostro cuore”. La preghiera a Dio viene esaudita se è animata dall’amore e l’amore vuole l’obbedienza ai comandamenti, che sono comandamenti d’amore (5,3-4; Gv 14,15.21).
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato”. Il comandamento nel quale sono racchiusi tutti i comandamenti è quello di credere nel “nome del Figlio suo Gesù Cristo”; infatti nessuno va al Padre se non per mezzo del Figlio (Gv 14,6); e non ci è stato dato altro nome nel quale possiamo essere salvi (At 4,12). Tale comandamento è “Amare Dio con tutto il cuore…”, e si realizza nell’accedere al Padre per mezzo del Figlio. Il comandamento è uno, ma include anche l’amore verso il prossimo, secondo il precetto che lui ci ha dato (Gv 15,12): “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”.
Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui”. Il comandamento prima presentato ne comprende due (Mc 12,31), e vanno osservati per essere in comunione con Dio “in Dio e Dio in lui”.
In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. Infatti, (Rm 8,16): “Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio”; (Gv 15,26): “Darà testimonianza di me”; (Gv 18,26): “E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere (nella Pentecoste), perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”.

Vigilare per non essere vittima di false dottrine
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1 Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo.
2 In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; 3 ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo. 4 Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto costoro, perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo. 5 Essi sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta.
Noi siamo da Dio: chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta. Da questo noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore.

Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo”. Occorre verificare gli spiriti, cioè le persone con le loro idee. “Molti falsi profeti”; il che conduce a pensare a pseudocarismatici che diffondevano errori.
In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio”. Giovanni ha di fonte a sé l’incipiente dottrina della gnosi che poneva la materia come scaturita da un Principio malvagio e di conseguenza sosteneva che Cristo non si era realmente incarnato, ma la sua era solo un’apparenza, con ciò veniva annullata tutta la realtà della sua Passione, tutta la realtà dell’Eucaristia, tutta la realtà dell’espiazione, e con ciò della salvezza.
Se le circostanze presenti a Giovanni erano queste la sua dichiarazione ha tuttavia valore universale. Infatti negando “
Gesù Cristo venuto nella carne”, si negava tutta la sua opera storica di istituzione della Chiesa, dei Sacramenti, e quindi la veracità apostolica. Negare anche solo una parte della verità è gettare un’ombra più o meno grave su tutto, così si ha uno spirito (cioè una persona esprimente una dottrina) che non viene da Dio.
I falsi profeti, o pseudomistici, si presentavano con apparente veste ortodossa, stando dentro le comunità e per questo occorreva un attento discernimento (Mt 7,22-23; 1Tes 5,19-21; 10; 1Gv 2,27; 3,9; 4,6; Ap 2,2). (1Tess 5,19): “
Non spegnete lo Spirito”, dice san Paolo. Lo spegne il razionalismo, ma lo spegne anche lo pseudomisticismo.
Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo”. “Lo spirito dell’anticristo” è riconducibile all’affermazione che Cristo non è venuto nella carne, perché ciò nega in modo più o meno compromettente l’azione di Cristo e la, strettissimamente connessa, testimonianza della Chiesa (Mt 10,40; Mc 9,37; Lc 10,16; Gv 13,20).
Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto costoro, perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo”. “Figlioli” (teknia). Giovanni dichiara che i fedeli hanno vinto, cioè hanno ogni possibilità di vittoria sui falsi maestri, sia per resistervi, sia per confutarne gli errori, sia per neutralizzare le loro azioni disgregatrici. Tutto ciò in virtù di “colui che è in voi”, poiché egli è ben più grande “di colui che è nel mondo”, cioè Satana, il principe di questo mondo (Gv 12,31; 14,29).
Essi sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta”. I falsi maestri “sono del mondo”, e non insegnano cose che vengono da Dio, ma cose del mondo, cioè impregnate di errore, Il mondo li ascolta perché li riconosce suoi (Gv 5,43).
Noi siamo da Dio: chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta. Da questo noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore”. “Chi conosce Dio ascolta noi”; non solo i credenti in Cristo, ma anche chi non evangelizzato conosce, con il lume della ragione e l’azione universale dello Spirito Santo, dono di Cristo in azione su ogni uomo, tende verso l’unico creatore, provvido e misericordioso e aspettano, pur in maniera non intesa, una svolta di vita. Costoro accolgono la Parola di Cristo annunciata dalla Chiesa (At 13,48), quelli che invece sono corrotti e sono appiattiti al mondo non l’accolgono.

L’amore di Dio, sorgente dell’amore fraterno
7 Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. 8 Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. 9 In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. 10 In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
11 Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. 12 Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi. 13 In questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha donato il suo Spirito. 14 E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo. 15 Chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in lui ed egli in Dio. 16 E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui.
17 In questo l’amore ha raggiunto tra noi la sua perfezione: che abbiamo fiducia nel giorno del giudizio, perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo.
18 Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore. 19 Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. 20 Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. 21 E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello.

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”. Giovanni rinnova l’invito all’amore fraterno. Esso viene da Dio, perché “Dio è amore”. “Dio è amore” non solo perché ci ama, ma perché è amore in se stesso: Dio è uno quanto all’unica Essenza, ma quell’uno è anche comunione di tre Persone.
In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui”. L’amore di Dio si è espresso “in noi”, poiché egli ci ha amati per essere “in noi” con il suo amore (Gv 17,26). L’amore di Dio si è manifestato nell’invio del Figlio nel mondo affinché fosse vinta la morte data dal peccato e si avesse “la vita”, che è la comunione con lui.
In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”. L’amore non è credere di amare Dio per primi, poiché è assolutamente vero il contrario, e non lo potremmo amare se egli non ci avesse amati per primo. L’amore si è poi manifestato a noi, poiché Gesù si è addossato davanti al Padre le nostre colpe affinché ottenessimo il perdono e la figliolanza con lui.
Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri”. La conseguenza di ciò è che “dobbiamo amarci gli uni gli altri”. Non amarsi è rifiutare l’iniziativa d’amore di Dio, e con ciò non essere salvati dai peccati.
Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi”. “Nessuno ha mai visto Dio” (Gv 1,18), ma se “ci amiamo gli uni gli altri” siamo nella condizione che “Dio rimane in noi” e l’amore che egli ha posto nei nostri cuori con lo Spirito Santo che ci è stato donato (Rm 5,5) è “perfetto in noi”, nel senso che ha la sua compiutezza, poiché quanto alla perfezione, esente dagli effetti del peso della carne (Rm 7,14), sarà raggiunta solo in cielo.
In questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha donato il suo Spirito”. Lo Spirito Santo conduce a tutta intera la verità e alita in noi la preghiera. Ciò ci fa conoscere nella fede e nell’obbedienza al Vangelo “che noi rimaniamo in lui ed egli in noi
E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo”. Il Padre ha inviato il suo Figlio “come salvatore del mondo”; l’essere venuto nella carne era per la missione di salvare gli uomini, non una semplice presentazione di sé. Satana voleva condurre Gesù all’esibizione di sé (Mt 4,1s; Lc 4,1s), per un vuoto piano di conquista degli uomini, ma Cristo ha obbedito al disegno salvifico del Padre fino alla morte di croce.
Chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in lui ed egli in Dio”. Confessare vuol dire testimoniare con le labbra la propria fede (Gv 1,29; Rm 10,9; Eb 13,15), non tenendola vilmente nascosta. Confessare che Gesù Cristo “venuto nella carne”, “è il Figlio di Dio, è condizione imprescindibile per rimanere nell’unione con Dio.
E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi”. “Abbiamo conosciuto”; gli apostoli con la loro vita con Cristo (1,1s), mentre i fedeli lo hanno conosciuto dalla testimonianza apostolica (1Pt 1,8). Alla conoscenza è unita la fede, altrimenti sarebbe non una conoscenza di vita, ma una conoscenza secondo la carne che produce morte (2Cor 3,16; 15,16).
In questo l’amore ha raggiunto tra noi la sua perfezione: che abbiamo fiducia nel giorno del giudizio, perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo”. Chi teme il giorno del giudizio è in stato di colpa. Chi invece ha fiducia, e tale fiducia si basa sull’attuata imitazione di Cristo “come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo” e non sull’illusione (Mt 7,21s; Lc 13,24), ha raggiunto “tra noi”, cioè nella condizione presente di cammino sulla terra, la “sua perfezione”. Tale perfezione esclude il timore del giudizio, non attuando per questo su di sé un autogiudizio, quasi a darci da noi stessi il premio (!Cor 4,3-4).
Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore”. “Nell’amore non c’è timore”, anzi “l’amore perfetto scaccia il timore” del castigo. Si ha tuttavia il magnifico timore di Dio, uno dei sette doni dello Spirito Santo, esso non è il timore servile che si attua nella paura della punizione, ma è il timore che rende vigilanti per non cadere nell’offesa di Dio, infinitamente degno di essere amato. Infatti chi è in piedi badi di non cadere (1Cor 10,12); e attendete alla vostra salvezza con rispetto e timore (Fil 2,12).
Se uno dice: ‹Io amo Dio› e odia suo fratello, è un bugiardo”. Giovanni non si riferisce più a coloro che dicevano (2,4): “lo conosco” e mentivano, ma a chi diceva con menzogna ancora più tragica: “lo amo Dio”. Così, chi dice “di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre”.
Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”.
Il “
proprio fratello” va inteso quale fratello in Cristo e non secondo la carne o l’etnia. Giovanni ha già detto che (2,19) “non tutti sono dei nostri”, per cui il discorso va collocato dentro le stesse comunità, per mettere in guardia e discernere. Si tratta dell’amore verso il fratello in Cristo, che sorge spontaneo vedendone le virtù. Il “proprio fratello” è testimone del “Verbo della vita” (1,1; Gv 18), che si è fatto carne e ha rivelato il Padre, e ci ha rigenerati a nuova vita. Non amare il “proprio fratello” significa rifiutarne la sua testimonianza, che indica nei “fatti e nella verità” (3,18), la potenza, la bellezza, la misericordia, la sapienza di Dio. Odiando il “proprio fratello” si rifiuta la sua testimonianza, e quindi l’orientamento a Dio, nell’amore comunicato dallo Spirito Santo. Giovanni dice che secondo l’umano è più facile amare ciò che si vede di ciò che non si vede, cosicché ne segue che chi non ama il fratello “che vede” non può amare di certo Dio che “non vede”. E’ così menzogna dire di amare Dio, mentre non si ama il fratello. Non ne segue però l’autorizzazione ad amare di più la creatura che Dio, poiché è l’opposto che è vero (Mt 10,37). I falsi maestri odiavano e perciò cercavano di travolgere la santità del “proprio fratello”, pur ben vista e anche affascinante. E’ il caso di Caino, che preso da invidia odiò e uccise Abele, che compiva opere buone (3,11).
I falsi maestri si vantavano di vedere Dio, per via di conoscenza (gnosi) diretta, intuitiva - Dio però nessuno l’ha mai visto (4,12; Gv 1,18) -, e poi odiavano i fratelli nei quali si rispecchiava Dio.
 

La forza vittoriosa della fede
5 1 Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato.
2 In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. 3 In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. 4 Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede.
5 E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? 6 Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità. 7 Poiché tre sono quelli che danno testimonianza: 8 lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi. 9 Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore: e questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio. 10 Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé. Chi non crede a Dio, fa di lui un bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha dato riguardo al proprio Figlio. 11 E la testimonianza è questa: Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. 12 Chi ha il Figlio, ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita.

Questo vi ho scritto perché sappiate che possedete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio”. Lo scritto vuole dare conoscenza ai destinatari della lettera che posseggono “la vita eterna”, in quanto credenti “nel nome del Figlio di Dio”. Non ci sia dunque incertezza sull’evento di Cristo salvatore ed elevante, quali figli, al Padre.
Giova ripetere che i falsi maestri, a declinazione gnostica, ponevano in dubbio la realtà salvifica di Gesù, poiché per essi Gesù Cristo non era venuto nella carne e neppure era Figlio di Dio, ma era solo un eone platonico, una emanazione della divinità, apparsa con un corpo fittizio.

Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato”. Credere che “Gesù è il Cristo” significa credere nelle attese dei patriarchi e dei profeti, e con ciò rifiutare le negazioni del giudaismo, confluite nelle dottrine dei falsi maestri.
In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti”. L’amore autentico verso i fratelli vuole l’amore a Dio e l’obbedienza ai suoi comandamenti. Evidentemente, si argomentava che si aveva amore per i fratelli, anche se si professavano errori radicali.
In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi”. L’amore di Dio, infuso dallo Spirito Santo (Rm 5,5), conduce all’osservanza dei comandamenti, ed essi “non sono gravosi” (Mt 11,29).
Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede”. La fede in Cristo è tanto potente da vincere tutte le insidie e violenze del mondo, poiché colui al quale si crede è Gesù il Figlio di Dio, sempre operante per mezzo della grazia.
E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? 6 Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto”. Le parole “non con l’acqua soltanto” vanno ben valutate, poiché non c’è un’azione di Cristo “con acqua”, bensì con acqua è quella di Giovanni che testimoniava nel Giordano la presenza di Cristo, Figlio di Dio; così come si udì dalla voce proveniente dal Cielo. In tal modo viene sottolineato che Gesù non è venuto solo con un battesimo di acqua come quello di Giovanni, ma con un nuovo Battesimo, dove non c’è solo l’acqua, quale segno di lavacro, ma il Sangue, quale realtà operante la remissione dei peccati. Il Sangue è testimone dell’amore immisurabile di Cristo, Figlio di Dio, perché solo il Figlio di Dio poteva ricondurre, mediante l’espiazione della croce, gli uomini ad essere nuovamente figli di Dio. “L’uomo non può riscattare se stesso”, (Ps 48/49,8; Ps 39/40,7-8; Eb 10,6). La croce testimonia la divinità di Cristo, poiché solo il sacrificio di Cristo, vero Dio e vero uomo, poteva espiare le innumerevoli colpe del genere umano. Il Battesimo di Gesù non si può ridurre in alcun modo alle abluzioni giudaiche o anche pagane, poiché esso agisce per la vita nuova in virtù del Sangue. La croce di Cristo, non è il segno del fallimento della sua opera, ma il segno glorioso della sua divinità. I falsi maestri riducevano il Battesimo a un lavacro (1Pt 3,20), e la croce a un fallimento.

Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che danno testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi”. Lo Spirito “dà testimonianza” perché conduce a Gesù, illumina la persona di Gesù, fa comprendere con sempre più profondità le sue parole (Gv 14,17.26; 16,13-14). L’acqua è la testimonianza di Giovanni Battista (Gv 1,8.15.19.32.36; 3,25s). Il sangue testimonia che il Padre ha inviato il Figlio affinché fosse Salvatore del genere umano, mediante il sacrificio della croce.
Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore: e questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio”. La testimonianza dell’amore del Padre è quella di avere inviato (4,14) e dato (Gv 3,16) il Figlio per la salvezza del mondo.
Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé”. Chi crede nel Figlio, è forte della testimonianza data da Dio, che è Amore.
Chi non crede a Dio, fa di lui un bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha dato riguardo al proprio Figlio”. La testimonianza di Dio è di una forza infinita, avendo inviato e dato, quale vittima di espiazione, il Figlio venuto nella carne. Rifiutare tale testimonianza è fare di Dio un bugiardo e ciò è di una gravità e assurdità immisurabile.
E la testimonianza è questa: Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio”. Giovanni aggiunge che il Figlio ha operato la salvezza dalla morte dando la “vita eterna”, che è posseduta da chi accoglie il Figlio.
Chi ha il Figlio, ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita”. Questa frase scultorea riassume tutto il pensiero precedente.
Questo vi ho scritto perché sappiate che possedete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio”. Giovanni vuole che i fedeli insidiati dai falsi maestri prendano consapevolezza che possiedono la vita eterna; ciò nella fede in Cristo, che deve essere fede operosa (Gal 5,6).

La preghiera di domanda nella carità e per la carità
14 E questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, egli ci ascolta. 15 E se sappiamo che ci ascolta in tutto quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già da lui quanto abbiamo chiesto. 16 Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà la vita: a coloro, cioè, il cui peccato non conduce alla morte. C’è infatti un peccato che conduce alla morte; non dico di pregare riguardo a questo peccato. 17 Ogni iniquità è peccato, ma c’è il peccato che non conduce alla morte.

E questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, egli ci ascolta”. La fiducia è la speranza viva e calma, sostenuta da una fede che non dubita, poiché la vera fede esclude il dubbio. Un problema deve rimanere problema e non diventare dubbio: i problemi possono essere risolti con la fede che spinge alla preghiera. Gesù ci ha detto che se pregheremo otterremo (Mt 7,7; 18,19; Mc 12,24; Lc 18,1; Gv 14,13; 15,16; 17,24.26). Bisogna chiedere ciò che è bene, cioè “secondo la sua volontà”.
E se sappiamo che ci ascolta in tutto quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già da lui quanto abbiamo chiesto”. Noi sappiamo di essere esauditi perché Dio è fedele, e se si ha questa fede non si dubita di essere esauditi. Il Vangelo di Marco riporta queste parole di Gesù (Mc 12,24): “Tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà”.
C’è infatti un peccato che conduce alla morte; non dico di pregare riguardo a questo peccato”. Il peccato che conduce alla morte è il peccato contro lo Spirito Santo (Mt 12,31). Tale peccato impedisce a Dio di perdonare perché l’individuo si è chiuso pervicacemente ad ogni invito di Dio. Tale peccato può essere raggiunto con l’impenitenza finale, nella quale si sceglie l’odio. Ma la scelta degli anticristi è precisamente la scelta di essere ostili pervicacemente ad ogni richiamo di Dio. Non si tratta perciò del “peccato mortale”, che uccide la presenza Dio nell’anima, ma della uccisione delle capacità dell’anima al bene.

Riassunto della dottrina della lettera
18 Sappiamo che chiunque è stato generato da Dio non pecca: chi è stato generato da Dio preserva se stesso e il Maligno non lo tocca. 19 Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo sta in potere del Maligno. 20 Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio, nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna.
21 Figlioli, guardatevi dai falsi dèi!


Sappiamo che chiunque è stato generato da Dio non pecca: chi è stato generato da Dio preserva se stesso e il Maligno non lo tocca”. Fin tanto che uno rimane in Cristo ha la forza di essere più che vincitore (Rm 8,35-37) delle tentazioni e persecuzioni del mondo e del Maligno.
Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo sta in potere del Maligno”. Il mondo è l’insieme delle strutture di peccato e dei pensieri di peccato che si sono annidati della società umana, la quale in sé è cosa buona.
Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio”. Cristo ha dato all’uomo la conoscenza del vero Dio. Infatti (Gv 14,10): “Chi ha visto me, ha visto il Padre”.
E noi siamo nel vero Dio, nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna”. La vita eterna è partecipazione alla vita divina e ciò per mezzo di Cristo, il quale uno con il Padre e lo Spirito Santo è la stessa vita eterna alla quale in lui, prima nella fede poi nella visione, siamo chiamati a partecipare (Gv 3,36; 5,24; 6,47; 17,3).
Figlioli, guardatevi dai falsi dèi!”. “Figlioli” (teknia). La traduzione esatta è “dagli idoli” (eidòlon). La traduzione “dai falsi dei” rimanda al paganesimo, ma la lettera si muove a vette ben più alte del timore degli dei pagani; qua si tratta degli anticristi, veri idoli in carne e ossa, che si presentavano, per mezzo della loro gnosi, divinizzati, e incontaminabili, nonostante le loro adesioni alla carne.