CHE COSA VUOLE?”  
     
Da bravo religioso sempre vigilava che non si supponesse di lui nulla di più di quanto era, anzi se si pensava ancor meno di quello che fosse, considerava la cosa un gran guadagno.
Mosso da questo principio, non aveva difficoltà a raccontare come una notte d'estate del 1948, mentre dimorava al santuario e non riusciva a riposare per il caldo, dato che sul pagliericcio ci si doveva coricare con la spessa tonaca, si trovò ad aver a che fare con il miagolio di un gatto che era entrato nel conventino-tugurio e vi passeggiava liberamente. Con una mano lo afferrò per il groppino e ... via, fuori dalla finestra. Poi si coricò meno in pace di prima pensando a fratello gatto durante l'atterraggio e, ancor più, all'impazienza avuta.
Un'altra volta raccontò che, sempre nel 1948, a Puianello, mentre stava cucinando, uno schizzo d'olio bollente lo raggiunse alle mani e, d'istinto, ebbe un moto di brusca reazione, che lo portò a conficcarsi una scheggia sotto l'unghia di un piede. Dolorante, prese la padella e scese in chiesa dicendo a denti stretti e ben poco sottomesso: “Io, Gesù, la pazienza non la perdo!”.
Un'altra volta, ad un gruppo di coppie di sposi, rivelò che non solo loro avevano difficoltà nella vita insieme, ma a volte ce n'erano a volte anche in convento.
p. Raffaele da Mestre
E così tratteggiava le situazioni: “Avvicini un frate, e questo ti fa un grugno perché è in contemplazione; vai vicino ad un altro, e non ti rivolge neppure una parola perché è in crisi; poi vai a vedere se è possibile parlare con un terzo, ma questo, per regola sua, sta sempre zitto”. Le coppie si sentivano sollevate da questi quadretti e, vedendo il volto sorridente di p. Raffaele, capivano che tutto può essere superato con la carità.
Una volta, si spinse ad aprire il suo animo lasciando intendere le dure battaglie interiori che talvolta sosteneva: “A volte, anche a me vengono dei momenti nei quali tutto mi sembra impossibile e mi verrebbe la voglia di prendere in mano un piccone e buttare giù il convento, ma poi, accetto, capisco ... vedo il grande valore di quei momenti ... guardo a Gesù”.
Chi andava a Puianello mosso da certe descrizioni sui santi, perché tale era considerato p. Raffaele, era ben presto costretto a rivedere i suoi concetti stereotipati sulla santità. Lì, il collo torto, lo sguardo sdolcinato rivolto in alto, la voce ieratica e le braccia alzate verso l'alto, andavano a farsi benedire, come si suol dire.
Capitava così che un visitatore, che si aspettava di essere accolto con parole degne di una biografia, al momento dell'ingresso nello studiolo di p. Raffaele, si sentisse dire, un po' bruscamente: “Che cosa vuole?”. E già! “Che cosa vuole?”, perché da p. Raffaele andavano anche dei perditempo, alla ricerca magari di visioni o di rivelazioni.
Le rivelazioni! Tanti gli domandavano un parere circa rivelazioni qua e là per l'Italia, ma egli rispondeva attenendosi sempre al giudizio della Chiesa. Essa era la sua ancora di salvezza in mezzo al turbinio dei dubbi che il mondo e il Demonio gli lanciavano contro, per scardinare il suo spirito. La fede della Chiesa era la sua fede. In un suo appunto così scriveva: “Non posso appoggiarmi su di me, perché tutto è sfasciato; mi appoggio sulla Chiesa ..., la afferro come uno scoglio fermo in mezzo al mare”.
Raffaele poggiava sulla fede di Pietro e questo gli permise di evitare di cadere nei tanti inganni del Demonio, che solitamente incontra un veggente. Egli, certo, aveva carismi straordinari, ma la sua guida era la fede e non le visioni, cosicché non aveva la gola delle rivelazioni e delle visioni; le accoglieva, ma nello stesso tempo le teologicizzava, cioè le traduceva in alimento per la fede. Del resto p. Raffaele, già nel noviziato, era entrato in contatto con la dottrina di santa Teresa d'Avila circa il comportamento sulle visioni e le rivelazioni. Per questo dottore della Chiesa, come del resto per san Giovanni della Croce, la via base, principe e solidissima della conoscenza di Cristo è l'oscurità luminosissima della fede.
Una volta gli accadde di trovarsi di fronte a notizie mirabolanti circa una “veggente” di Roma. Esaminando la cosa, vi scoprì i connotati di una vergognosa esibizione. Alla fine la “veggente” venne scoperta come inautentica. Quando lo dissero a p. Raffaele, due lacrime gli scesero lungo il viso: “Lo sapevo”, disse addolorato. Ma quelle lacrime non erano solo di dolore per la falsità, ma anche di gratitudine a Maria: se aveva evitato gli scogli dello pseudomisticismo lo doveva a lei.
Raffaele vedeva bene che senza l'obbedienza della fede tutto sarebbe caduto nel baratro dell'errore.
Così scrisse: “Se non avrò questa fede, quella che sposta le montagne, tutto sarà inutile e vano”, e ancora, in altra pagina: “Tutta l'ascesi delle anime a Dio, dovendo vivere Cristo da Betlemme al Calvario, ha come chiave soltanto la fede”.
 
   
ECCO I MIEI RAGAZZI”  
A Puianello non approdava solo la fatica, la preoccupazione, il dolore di tanti, ma anche il sorriso degli affezionati a Raffaele, che andavano da lui per incontrarsi con l'amico, con il padre, con il fratello. E p. Raffaele si manifestava vero animatore di gioia fraterna. Questo accadeva in modo speciale quando venivano a trovarlo i confratelli, e in modo del tutto gioviale, quando ogni due mesi i pescatori di Cattolica lo andavano a visitare organizzando addirittura un pullman.
Appena vedeva i pescatori diventava luminoso: “Ecco i miei ragazzi, i pazzi di Cattolica!”. I pescatori gridavano di gioia, e lui: “Io sto bene con voi, perché siete semplici e veritieri. Conducetemi in giro, ragazzi!”. La carrozzella cominciava subito a correre spinta da quelle braccia robuste, che non badavano ai chilometri, ma solo alla gioia di essere con chi tanto li capiva e li amava.
A Cattolica, il giorno dell'arrivederci, i pescatori si erano tutti confessati e comunicati da p. Raffaele, e avevano visto, durante quella Messa di commiato, le sue lacrime di commozione e di consolazione. Il calice e la patena che p. Raffaele usava a Puianello era un loro dono.
P. Raffaele da Mestre
Mentre la carrozzella correva, tutti sentivano che l'allegria che provavano era speciale. Un'allegria che nasceva dall'ascoltare le tante cose sui santi, su Dio, che Raffaele raccontava; e poi si cantava. Lo ripeteva spesso: “Sto bene con voi”; era a suo agio e lo manifestava con qualche frase in dialetto: “Mi capite lo stesso? L'emiliano è vicino al romagnolo”. Poi, affinché aderissero non tanto a lui quanto a Dio e alla Chiesa diceva: “Sono qui per aiutare gli altri, fin che posso; quando non lo potrò più, verrà un altro”.
P. Raffaele si sentiva veramente un frate. Cercava di esserlo sempre di più, attraverso la trasformazione in Cristo. Da tempo aveva abbandonato la compressione distruttiva della sua umanità, pian piano l'aveva riesaminata la sua umanità; l’aveva guarita, purificata, rendendola capace di armonizzarsi con il soprannaturale della grazia. Certo, rimaneva costante l'impegno ad estirpare l'essenza serpentina dell'amor proprio, sempre insorgente, a dominare il senso e ad abbracciare la croce, ma Raffaele aveva ormai da tempo attraversate le paludi di un ascetismo autolesionista.
L'identità del frate, Raffaele la vedeva tutta nella conformità a Cristo. Il “frate minore” è carità che coinvolge in completa adesione anima e corpo. Questo ben l'aveva visto in p. Pio e lo diceva: “Non mi stancherò mai di dirlo: padre Pio è stato un vero frate minore”. Queste sue parole erano importantissime, perché coglievano p. Pio nella sua più profonda identità. I più si fermavano alle stimmate, alle lotte con i demoni, alle profezie, ai miracoli; p. Raffaele aveva visto il vero p. Pio: un frate, un frate infuocato d'amore per la salvezza delle anime. Raffaele diceva che l'essere frate era per lui la base sulla quale si innestava il suo sacerdozio: “L'essere frate, è stata la mia base ad essere sacerdote”. Non dunque un sacerdozio inteso solo come servizio sacerdotale, ma come conformità a Cristo: i tre voti e la vita fraterna, ad immagine di quella di Cristo con gli apostoli e i discepoli, diventavano un tutt'uno in lui, nella realtà esistenziale del suo cuore, pur essendo due realtà diverse.
 
Diceva p. Raffaele agli studenti cappuccini di teologia, nei quali leggeva il desiderio di sapere il perché di tanto afflusso attorno a lui: “Vengono a trovare il frate”.
I superiori furono veramente premurosi con Raffaele e gli concessero un giorno di riposo alla settimana: il venerdì.
Quando c'era bel tempo, in quel giorno, veniva naturale l'idea di una passeggiata e il pranzo presso qualche benefattore. Le passeggiate, o meglio i piccoli viaggi in carrozzella, gli facevano bene. Una volta gli si sentì dire: “Ecco, ho la testa sgombera”.
In quei momenti di respiro continuava ad essere disponibile per gli altri. Quando gli accompagnatori prendevano un po' di fiato, dopo una lunga salita, si realizzava a lato della strada un simpatico centro di ascolto. Giunti a destinazione presso la famiglia ospitante, Raffaele subito si impegnava a portare pace e gioia.
P. Raffaele da Mestre
Un giorno si scoprì che aveva una memoria formidabile. Giunto presso una famiglia, dopo il desinare, sostò nel piccolo parco della casa, ad osservare una decina di ragazzi del vicinato che giocavano e si rincorrevano; dopo pochi minuti Raffaele sapeva già distinguerli e chiamarli per nome. Alcune persone del posto ne rimasero sorprese perché neppure loro conoscevano per nome tutti quei ragazzi. Ma, la memoria di p. Raffaele era aiutata dall'amore.
In quei momenti sembrava che fosse dimentico dell'orazione, ma non era così. Infatti, quando ritornò al santuario, disse: “Come è stato bello pregare sotto quei pini!”. Sì! Lui aveva sempre pregato, perché era rimasto nell'Amore, con vivo amore.
Quando rivedeva il santuario lo ammirava, ma non per l'architettura, per il tamburo della cupola, per i due simmetrici campanili, ma perché era una fortezza di Maria. Una volta guardando la fortezza di Maria disse: “Guarda là, la Madonna”.
 
 
LAUDATO SI', MI SIGNORE”  
Al santuario si respirava un'aria di fede così intensa da vedere possibile, in breve, un risveglio di vita cristiana un po' ovunque. P. Raffaele infondeva speranza e coraggio; inoltre, si era nel tempo del post-concilio pieno di speranze di rinnovamento.
Rinnovamento anche per la Famiglia francescana, che p. Raffaele pensava come una, perché è una nella Regola. Egli aveva ben chiaro che la Famiglia francescana, pur nella varietà delle forme prodottesi nel tempo, aveva “una sola fondamentale spiritualità”. Quando parlava di rinnovamento guardava proprio all'unica fondamentale spiritualità francescana, compromessa la quale la pluralità di forme diventa deviazione. Così, parlando ad alcuni frati, precisava come il nucleo della vita francescana era seguire l'amore che Francesco aveva per la croce di Cristo: “Quando ci siamo messi a fare i colti siamo diventati eretici; quando ci siamo imborghesiti ci siamo distrutti. L'unico patrimonio che abbiamo è la Croce di Cristo”.
Sul rinnovamento dell'Ordine Cappuccino scrisse molte pagine, nate dalla riflessione sulle nuove Costituzioni dei Cappuccini approvate ad experimentum nel 1968. Lesse e rilesse le nuove Costituzioni e le condivideva. Le ragioni di tante crisi? La risposta? “Ogni crisi non è altro che una crisi di fede”.
Egli guardava a Francesco, non solo come esempio per vivere all'interno dell'Ordine, ma anche come esempio concreto di vita per far rivivere Cristo nei cuori dei lontani, di quelli che ancoro non lo conoscono.
Nel suo apostolato aveva sperimentato la potenza della povertà, come forza d'unione fraterna e testimonianza di credibilità. San Francesco aveva abbracciato l'altissima povertà all'udire le parole di Cristo al momento dell'invio dei discepoli (Mt 10, 9-10); la povertà era così forza apostolica. Così p. Raffaele la insegnava ad un postulante che stava seguendo: “La povertà è stata messa alla base da san Francesco non per nulla, ma perché è la sintesi di tutta la teologia: è che Dio mi basta. Dio è tutto per me: è l'affermazione più pratica della teologia. Il concetto di povertà è questo: Io devo possedere solamente Dio e di tutto il resto me ne devo privare volontariamente, perché Dio mi basta”.
Tutto proiettato verso un orizzonte di ripresa, fondò a Puianello una fraternità dell'Ordine Francescano Secolare. Fratelli e sorelle che vivevano nella condizione laicale il carisma francescano. Li pensò come una forza di Maria. Affidò loro il compito del decoro del santuario e l'impegno di diffondere la cartellina dell'Ora di Guardia a Nostra Signora di Puianello. Diede loro anche il compito di raccogliere aiuti per la missione di Batangafò, in Centrafrica, che era stata affidata ai frati Cappuccini della sua Provincia Monastica.
Stare accanto a p. Raffaele era proprio condividere la vita di un frate, francescano fin nella carne. Era bello cogliere i suoi spunti di amore per la creazione. Così, nelle belle e calde sere d'estate durante una passeggiata, si fermava accanto alla grande croce in fondo alla scalinata del santuario e recitava ad alta voce il Cantico delle Creature, nell'intenzione di ottenere dal Signore la benedizione sui campi. Era quello un momento solenne e meraviglioso. Le parole “Laudato sì, mi' Signore...” acquistavano sulle labbra di Raffaele la loro forza più propria, il loro senso originario di inno di lode, di preghiera detta con tutto il cuore. A quelle parole tutte le cose sembravano divenir più belle, era come se venissero liberate dal peso di tanti sguardi sbagliati, terreni, atei.
 
   
DIO E' AMORE”   
   
Molti sono i luoghi attorno al santuario nei quali p. Raffaele sostava con la gente, ma quello che prediligeva era accanto alla statua di san Francesco. Lì faceva le conferenze nelle sere d'estate. E' vero che ci volevano degli zampironi, per contrastare le zanzare, ma il cielo stellato e l'aria tiepida davano un senso di benessere a tutti e favorivano l'ascolto familiare della sua parola ferma e convincente. Era la parola di un autentico frate minore: semplice, spoglia di ridondanze, incisiva, gioiosa, tenera, forte, dolorosa, felice di annunziare che Dio è Amore. Non era per nulla monotono Raffaele, non poteva esserlo, poiché l'amore non lo può essere. Ogni parola che diceva passava al vaglio del suo cuore o meglio scaturiva dal suo cuore, intimamente unito a Cristo, perciò usciva dal suo labbro vera e liberante. P. Raffaele da Mestre
 
La luce fioca di una lampadina, fissata al santuario, illuminava appena appena il gruppo, anzi il gruppo era pressoché al buio. Si gustava così maggiormente il senso della notte.
In basso, oltre la siepe del piazzale, appariva la pianura piena di luce, a dare, per contrasto con la solitudine della collinetta alta 446 metri sul livello del mare, una percezione di distacco dal mondo che favoriva il contatto con il Vangelo.
Altro punto nel quale amava stare nell'immediato pomeriggio era dietro la siepe del piazzale, sotto gli alberi a lato della scalinata.
Ma nelle sere d'estate spesso c'era una piccola passeggiata offerta a Raffaele. Poche centinaia di metri per trovare una magnifica posizione panoramica in uno spiazzo erboso. Chi l'accompagnava si sedeva sull'erba, guardando l'infuocato spettacolo del tramonto.
La primavera e l'estate esprimono tutto il loro fascino a Puianello, ma anche l'autunno e l'inverno, con le loro folate di nebbia.
 
Poi, il bianco delle nevicate e tutto diventa silenzioso: nessuno saliva al santuario. Tutto acquistava un particolare lirismo, quando la corrente elettrica mancava, pareva di essere tornati indietro di cento anni. Se c'era un frate che amava il lume di candela quello era il momento in cui veniva soddisfatto, e padre Raffaele era un frate così: gli ricordava il lontano 1948.
Tappato sempre dentro il santuario nella stagione invernale? No, di certo! Una capatina fuori l'infermiere gliela faceva fare. Il vento allora gli gonfiava il cappuccio, realizzando il profilo più suggestivo dell'abito cappuccino.
Per muoversi c'era sempre bisogno di qualcuno che spingesse la carrozzella, così per dare un qualche grado di autonomia a p. Raffaele venne deciso di dotare la carrozzella di un piccolo motore. L'idea parve buona, ma un giorno la carrozzella si cappottò, provocando a p. Raffaele dolori che è facile immaginare.
Quel piccolo grado di libertà l'aveva fatto contento, ma il motorino dovette essere smontato. Ritornò ad essere alle strette dipendenze del frate infermiere e dei vari volontari che, con grande piacere, si prestavano a spingere la carrozzella.
P. Raffaele da Mestre