Il significato biblico della parola "cielo"  
 
   
     

L’importanza della parola “cielo”
Nonostante che quando si parla di cielo o di paradiso si dica, da qualche tempo (dal 1957, mons. Antonio Piolanti), che esso è simbolo dello stato di beatitudine eterna dato dalla visione di Dio, e ci si astenga troppo spesso dal dire che va inteso anche come luogo, rimane che non c’è fedele, umile e semplice, che non intenda che un luogo dove è accolto il Corpo di Cristo e quello della Vergine Madre ci sia. Essendo un corpo è fuori dubbio che sia in un luogo.

Ci si domanda perché si sia esitato e si esiti a fare menzione di quel cielo, certamente senza volere minimamente una perdita di ortodossia.
Penso alla preoccupazione pastorale di togliere ai fedeli l’idea che il paradiso o cielo sia il luogo delle beatitudini, senza considerare il nucleo fondamentale, che è la visione dell’Essenza divina. Forse si pensa che nell’era delle conquiste spaziali il cielo all’uomo di oggi faccia problema, e perciò non intenda l’esistenza del cielo di cui si vuole parlare; ma certo la parola “cielo”, o lassù, è pur comunissima. Forse che qualcuno pretende una risposta circa le coordinate spaziali di quel luogo, ma su questa richiesta è chiaro che non si può aprire bocca, ma è chiaro che non è una risposta il mettere in ombra il luogo. Gesù, infatti, ci ha parlato di un luogo e ci ha detto che lui è la via che conduce a quel luogo (Gv 14,3-4): la risposta da dare ai richiedenti le coordinate spaziali del paradiso è tutta qui, non c’è bisogno di dire altro.

Comunque il cielo è un concetto d’immediata acquisizione dell’uomo, connesso all’alto e il basso. Alto e basso sono due dati immediati, primordiali, ineludibili. Per questo i fedeli continueranno a pensare al cielo anche come luogo e guarderanno spesso in alto quando pregano.

Non bisogna dimenticare che Gesù rivolgendosi al Padre levava gli occhi al cielo (Mt 14,19, ecc.), e che il pubblicano della parabola non osava alzare gli occhi al cielo (Lc 13,8).

Il cielo, “che sei nei cieli”, esprime certamente la trascendenza e la Maestà di Dio, ma anche indica la patria celeste, la Gerusalemme di lassù (Gal 4,26), dove Cristo Re siede alla destra del Padre sul trono promesso a Davide (Cf. Lc 1,32-33; At 2,32-34; 2Tm 2,8).

Come fare chiarezza circa il cielo, senza il timore, presente anche nel CCC (2794), di dire spazio siderale? Proprio la Scrittura non dà nessun aiuto a distinguere lo spazio astrale, i cieli cosmici, dal cielo dove è salito glorioso il Signore, e dove è presente la Madre assunta?

L’aiuto c’è e si trova nella seconda lettera di Pietro (3,11) dove si dice che i cieli s’incendieranno, si dissolveranno per il calore ardente, e fondendosi gli elementi svaniranno nella loro forma attuale. Per il testo biblico sono chiaramente i cieli astronomici che saranno colpiti dalla finale catastrofe; ma certo non svanirà il cielo dove Cristo è salito con il suo Corpo, per la semplice ragione che tale cielo non è stato mai contaminato dalla caducità (Rm 8,20). Era chiuso e si è aperto per la misericordia di Dio attuatasi nel Cristo. Per aperto va inteso principalmente l’accesso alla visione beatifica di Dio, ma anche l’accesso al luogo dove Cristo è salito e dove sono gli angeli e i beati.

Certissimamente il cosmo entrerà nella gloria (Rm 8, 21), e i beati risorti, già saliti (1Ts 4,17) al cielo dopo il giudizio universale, scenderanno a prendere possesso di un nuovo cielo e una nuova terra (Ap 21,1s), dove non ci sarà il mare, perché la terra sarà altro da quella attuale.

Così, Il cielo dove Cristo è salito impronterà di sé il nuovo cielo e la nuova terra.

Dopo aver ben chiarito che la parola cielo, o paradiso, indica come realtà prima la beatitudine eterna nella visione di Dio (1Gv 3,1-2), non si deve avere timore di dire che la parola cielo indica anche un luogo.

Omettendo che il cielo vada inteso anche come un luogo, si apre, anche senza assolutamente volerlo, uno spiraglio per equivoci.

Cristo, si dice oggi da alcuni teologi ed esegeti, è risorto in modo tale che il suo corpo si è come smaterializzato in luce. Ma sul monte Tabor Gesù si presentò luminosissimo, e non era mutata la sua corporeità, e così è nella risurrezione. Lo stato di gloria, si dice, ha fatto si che il corpo risorto non sia più lo stesso di prima; cosa erronea perché la risurrezione ha sì glorificato il Corpo di Cristo, ma non ne ha mutata la realtà fisica di nato da donna (Gal 4,4).

Quando il corpo di Cristo passò attraverso il muro del cenacolo, essi dicono, lo fece in virtù della sua corporeità diversa, e non per mezzo del miracolo della compenetrazione dei corpi, come invece fu. Chiaro che costoro parlano di cielo quando trattano dell’ascensione al cielo di Cristo, ma non dicono di più oltre l’espressione verbale. Non parlare di cielo come luogo è in pratica creare un contatto con quelli che pensano a un Cristo risorto in una materialità ineffabile di luce.

Lutero si fermò a un solo passo da questa posizione, ma si potrebbe partire da Lutero per arrivare a tale posizione.

Cristo, diceva Lutero, seguendo Guglielmo Occam e altri, nello stato di gloria ha acquistato quanto al corpo l’ubiquità, come la divinità. Con l’ubiquitarismo Lutero cercava di poggiare la sua concezione errata sulla presenza di Cristo nell’Eucaristia. In tal modo la sua concezione risulta una “impanazione” o, in termini più evoluti, una “consustanziazione”, cioè il pane e il vino rimangono tali. Più finemente, la “consustanziazione” indica che la sostanza del pane e del vino rimangono tali e si accompagnano, solo durante la celebrazione, con la sostanza, che è presente in modo spirituale (idea non specificata), del corpo e sangue di Cristo. Lutero rimaneva nella filosofia aristotelica della sostanza e degli accidenti, ma negando il mistero della “transustanziazione”, affermava che la sostanza rimaneva tale, e quindi il pane rimaneva pane e il vino rimaneva vino.

Lutero pensava Cristo alla destra del Padre, ma affermava che il suo corpo partecipa dell’onnipotenza di Dio e poiché l’onnipotenza divina si estende dovunque, diventava ubiquitario, cioè presente ovunque, con accentuazione di presenza nella celebrazione eucaristica. Lutero volle spiegare il mistero con la palese contraddizione di pensare a un corpo fisico che rimane tale e ha le sue dimensioni, ma che è come spalmato ovunque per l’onnipotenza divina, con un’accentuazione di presenza solo durante la celebrazione eucaristica, dove il pane e il vino non subiscono nessun cambiamento. Volendo scartare la “transustanziazione”, e volendo contrapporre un qualcosa di ragionato, Lutero cadde in una contraddizione palese. La “transustanziazione” invece rispetta il “misterium fidei”, non introducendo nella sua comprensione niente di illogico pur trattandosi di un balbettio di fronte al fulgore del mistero; la transustanziazione è mistero della presenza di Cristo secondo il modo della sostanza, ma non assurdo; il pane e il vino non sono più tali, rimanendo solo gli accidenti, cioè le apparenze, sostenute in essere dalla potenza divina poiché non lo potrebbero mancando loro la sostanza a cui ineriscono. Lutero non rispettando il mistero della “transustanziazione” con la sua “consustanziazione” è giunto a una illogicità nettamente contraria alle parole: “Questo è il mio Corpo; questo è il mio Sangue”, poiché le trasforma in : “Questo pane contiene il mio Corpo” e “Questo vino contiene il mio Sangue”; cioè l’impanazione, espressione molto delucidante il pensiero di Lutero.

Un’altra pista di apertura all’ingresso di errore è l’idea che la Sindone sia il risultato di un piccolo big bang dove il corpo di Cristo si è trasformato in una radiazione di misteriosa luce alla quale si deve l’impressione della Sindone. Tale idea ha preso piede tra i cristiani, non vigili, grazie ai mass-media.

Chiaramente, se la Sindone è messa in relazione con il Vangelo una cosa del genere non è, data la realtà del corpo risorto. Se poi la Sindone non è messa in relazione con il Vangelo si dovrebbe dire che il corpo di qualche crocifisso, già morto, ha avuto un’esplosione misteriosa e unica di energia, e questo è difficile raccontarlo a qualcuno.

Cristo è veramente risorto, glorioso, con la sua carne e le sue ossa, ed è salito a cielo, e perciò bisogna dire che il cielo è sì stato di beatitudine, ma è anche un luogo. Senza parlare di luogo, nell’aldilà, diventa fatale quando si parla di purgatorio e d’inferno, poiché si viene ad avere un insieme di anime vaganti, che contraddice la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro, circa l’abisso che separa cielo e inferno (Lc 16,26): “Oltre a tutto ciò, fra voi e noi sta scavata una grande voragine, affinché chiunque voglia di qui passare dalla vostra parte non lo possa né di costì si venga a noi”.