"Urlavo dal silenzio del coma"      
 
 
Marco Zatterin - corrispondente da Bruxelles: 24/11/2009 da La Stampa  

 

Lo credevano incosciente da ventitré anni, un test svela che sente e capisce

 

Quando finalmente ha potuto comunicare, battendo un dito su una speciale tastiera collegata a un personal computer, Rom Houben ha ammesso che negli infiniti giorni passati nella prigione di un'incoscienza apparente "aveva cercato di evadere sognando".

Per i medici era in coma, paralizzato da un incidente automobilistico nel 1983. Stato vegetativo persistente, è la diagnosi che ha accompagnato la sua scheda personale, almeno sino a che i ricercatori hanno trovato una via per capire che il cervello era ancora in attività. Gli hanno insegnato a esprimersi e lui l’ha fatto. "Urlavo senza che nessuno potesse sentire - è riuscito a dire -. Sono stato il testimone della mia sofferenza mentre i dottori cercavano di parlarmi, sino al giorno in cui ci hanno rinunciato".

C’era ancora Ronald Reagan alla Casa Bianca e il Muro di Berlino era in piedi, quando Houben è stato dato per spacciato. Il suo dramma s’è consumato nove anni prima di quello che ha colpito Eluana Englaro, la donna di Lecco ridotta a un vegetale nel 1992 e morta lo scorso febbraio in seguito alla sospensione della nutrizione artificiale. In medicina è difficile mettere a confronto singoli casi per trarre delle conclusioni esatte, però è chiaro che l’avventura di Rom, che oggi ha 46 anni, è potenzialmente in grado di riaprire il dibattito sul trattamento dei pazienti in stato di incoscienza permanente.

L’intenzione di Steven Laureys, il neurologo dell’Università di Liegi che in un articolo ha reso pubblica la vicenda di Houben, è proprio questa. Attirare l’attenzione sui tanti casi di coma che, a suo avviso, potrebbero essere stati erroneamente diagnosticati in tutto il mondo. All’inizio, con uno nuova tecnologia di "scanning", gli specialisti hanno potuto dimostrare che l’attività cerebrale non era interrotta. In un secondo momento, utilizzando uno strumento ad alta sensibilità, dunque in grado di registrare movimenti anche minimi, hanno cominciato «a parlare con Rom» che ha potuto raccontare la sua storia.

Le rivelazioni
"Come nascere una seconda volta", è stata una delle sensazioni che è riuscito a esternare. La paralisi era stata istantanea, ha fatto sapere ai medici, un dramma nel dramma per un ventenne dinamico, appassionato di arti marziali. Ci sono voluti altri 23 anni perché Laureys e i suoi trovassero il bandolo della matassa. "Per tutto questo tempo ho sognato una vita migliore - ha spiegato ai medici - e frustrazione è una parola che certamente non basta a definire come mi sono sentito". Adesso "voglio leggere, parlare con gli amici attraverso il computer e profittare della mia vita, adesso che la gente sa che non sono morto".

"Non è un caso isolato"
Laureys, belga, quarantunenne, auspica che Rom sia il simbolo della sua battaglia contro il coma irreversibile diagnosticato troppo alla leggera. In un uno studio firmato per la rivista scientifica "BioMedCentral Neurology", lo specialista ha scritto di ritenere tutt’altro che isolate le circostanze in cui si è trovato il giovane belga. Rom Houben, in buona sostanza, può diventare il simbolo di chi si oppone all'eutanasia. Lui, in fondo, è uno che ce l'ha fatta.

 

Inserito il 13 Dicembre 2009

 

Pian piano la verità sulla pillola Ru486
 
              
 

Intervista di Viviana Daloiso a  Luciano Bovicelli: 4 Agosto 2009, da Avvenire

 

«Una decisione irresponsabile. Una menzogna che espone le donne a rischi enormi e getta completamente sulle loro spalle il dramma dell’aborto». Luciano Bovicelli, ginecologo e ordinario di Clinica ginecologica ed ostetrica all’Università degli studi di Bologna, non fa obiezione di coscienza. In Italia è stato il primo a introdurre le tecniche di diagnosi ecografica delle malformazioni fetali, quelle amniocentesi precoci e villocentesi i cui risultati troppo spesso convincono le donne a interrompere una gravidanza. È quindi attestato su posizioni distanti dall’insegnamento della Chiesa in termini di vita nascente, ma all’introduzione della Ru486 nel nostro Paese si è sempre opposto. E oggi è più contrario che mai.

Professore, quali sono i motivi di tanta ostilità nei confronti della pillola abortiva?
La sento chiamare pillola "dolce", come se assumerla comportasse un minimo impatto fisico e psico-emotivo. Leggo in ogni dove che costerà pochissimo allo Stato, che libererà le donne dalla tragedia dell’aborto. Mi permetta: sono tutte bugie.

Perché?
Partiamo con una precisazione: la Ru486 non è una pillola, sono quattro. Tre pillole di mifepristone vanno assunte il primo giorno, a distanza di poco tempo l’una dall’altra. La quarta, la prostaglandina, dopo tre giorni.

Quattro giorni di aborto...
Esatto. Non c’è nessuna pillola che mandi giù e "in un attimo il problema è risolto", nessuna "magia", nessun "trauma evitato". È gravissimo che le donne vengano illuse su questo. E poi c’è la questione della concretezza di questo tipo aborto, di cosa succede davvero.

Già: cosa succede?
Al suo arrivo in ospedale, la donna che voglia abortire con la Ru486 è sottoposta a un’accurata ecografia, per stabilire l’età gestazionale del feto: perché l’aborto chimico abbia effetto (e anche in base a quanto stabilito dall’Aifa, ndr) deve essere al di sotto delle 7 settimane. È a quel punto che inizia la procedura: la paziente inghiottirà tre pillole che uccideranno il suo bambino. Sì, proprio quello che ha appena visto nelle immagini dell’ecografia. E le pillole sarà proprio lei a inghiottirle. Dopo di che, serviranno tre terribili giorni.

In che senso terribili?
Quello con la Ru486 non è l’aborto "chirurgico", che in due o tre minuti al massimo – con la paziente sotto anestesia – si completa. Qui la donna attraversa il travaglio abortivo: sente dolori alla pancia, ha emorragie, anche di forte intensità. Una vita si spegne dentro di lei nello spazio di tre giorni. Ed è uno spazio drammaticamente ampio.

E poi?
E poi arriva la quarta pillola, quella che dovrebbe portare all’espulsione del feto morto e che causa le contrazioni dell’utero. Il problema è che non si sa in quanto tempo farà effetto, o se permetterà l’eliminazione completa di quello che la medicina chiama "materiale abortivo": nessuno lo sa, e sto dicendo che non lo sappiamo nemmeno noi medici, neppure il personale sanitario! La verità è che l’aborto chimico è una procedura talmente complessa e imprevedibile che neanche in ospedale si sa come trattarla.

Quindi la donna non sarà tutelata appieno neanche se tutta la procedura dell’aborto chimico si espleterà in ospedale?
In realtà la domanda da porre è come sia possibile che tutta la procedura si espleti in ospedale. Terremo le donne in un letto quattro giorni? E questo ci costerebbe di meno? E se, come spesso accade, l’aborto non si esaurisse in quattro giorni? Aspetteremo quanto, prima di intervenire chirurgicamente con il raschiamento? Quanto tratterremo la donna in ospedale?.

Che fare, dunque?
Assolutamente non percorrere questa strada, e mi rivolgo soprattutto alle donne. Che poi sono le vere vittime di questa decisione.

In che senso ?
Vittime perché lasciate sole nell’affrontare il dramma di un’interruzione di gravidanza di cui diventano le esecutrici materiali. Vittime perché questa pillola ha ucciso decine di volte, e nessuno ha ancora fatto chiarezza su quelle morti. E vittime, soprattutto, perché ingannate. Convinte che esista un modo innocuo per liberarsi di quella "patologia" che oggi viene considerata una gravidanza. Tanto da fingere che possa essere affogata in un bicchier d’acqua...

 

Inserito il 10 Agosto 2009

 

Eluana e i fatti”, un volume che rende giustizia alla verità

 
 

Dal 27 maggio sarà nelle librerie il volume “Eluana e i fatti”, in Edizioni Ancora e Avvenire, al prezzo di 12 euro, scritto da Lucia Bellaspiga e Pino Ciociola.

Le anticipazioni ci presentano un quadro squallido di come è stata portata Eluana alla Quiete. La ragione burocratica fu quella di trasferirla per un “piano di assistenza individuale” finalizzato al “recupero funzionale e alla promozione sociale dell'assistita”, oltre che al contrasto dei “processi involutivi in atto”. Dunque la ragione doveva essere quella terapeutica e non quella di condurre Eluana alla morte. Il dottor Carlo Defanti, chiamato da Beppino Englaro nel 1995 con l'obiettivo di portare alla morte Eluana, parlò prima del ricovero all Quiete, di un buon stato di salute pur nella condizione di “stato vegetativo permanente”, ma sul “permanente” lo stesso Delfanti aveva però detto nel 2001 sulla rivista Bioetica che esiste “La difficoltà empirica di dimostrare l'irreversibilità dello stato vegetativo”. Defanti, nella “Scheda assistenziale” aveva certificato che il ciclo sonno-veglia di Eluana era normale, e che non aveva piaghe da decubito, e che non aveva bisogno di fisioterapia riabilitativa (tuttavia la fisioterapia era da 15 anni che veniva praticata su Eluana da quattro fisioterapisti per mantenere il tono della muscolatura). La ragazza entra il 3 febbraio alla Quiete e viene messa nelle mani dell'équipe capeggiata da Amato Monte, per l'esecuzione del protocollo di morte. Questo il vero scopo del trasferimento alla Quiete e non quello di un recupero.

I giornali (Repubblica) parlano di una Eluana in situazioni pietose, con piaghe da decubito, con un peso corporeo di 40 kg. Ma, in realtà di piaghe neppure l'ombra e il peso al momento del decesso era di 53 kg, il che vuol dire che al momento del ricovero il peso era di 56/57 kg. Poi la notizia più importante, proveniente dall'autopsia: il cervello di Eluana aveva il peso di quello di una persona normale, e si era invece detto da Maurizio Mori (uno che da anni gravitava attorno a Peppino Englaro) che il cervello di Eluana si era ridotto “almeno alla metà del suo peso”. Mori, morto nel 2008, aveva scritto un libro “Il caso Eluana”, con l'intento  di spazzare via “la concezione sacrale della vita”, e con ciò la rimozione del principio, invece irrinunciabile, della conservazione dell'alimentazione e idratazione. Defanti  nel 2007 in una relazione “prendersi cura dei pazienti con demenza”, parlava di un “valore diminuito della vita” e quindi la pensava come Mori, considerando la sospensione dell'alimentazione come un atto conseguente. Ma quanta oscurità nella “Scheda assistenziale” che avviava Eluana alla Quiete per un “recupero funzionale”, mentre invece era per la morte.

Il libro “Eluana e fatti” porterà molta chiarezza nell'opinione pubblica bombardata a suo tempo da un cumulo di disinformazione.

 

Inserito il 23 Maggio 2009

 

Beta Talassemia: Andando oltre l'aspetto del caso pietoso
 
 

I mass media non hanno lesinato la loro abilità nel presentare solo il risvolto positivo del bambino, di nome Javier, nato per salvare il fratello dalla beta talassemia. In concreto un bambino in Spagna è stato selezionato geneticamente con la tecnica dello screening preimpianto PGD (preimplantation genetic diagnosis) per guarire il fratello di sette anni afflitto da beta talassemia, l'operazione di trapianto del midollo osseo è avvenuta il 23 gennaio 2009. Il risultato è stato conseguito attraverso l'utilizzo di cellule staminali del cordone ombelicale del fratellino nato per guarire il fratello maggiore. Inutile dirlo la notizia detta così ha un che di accattivante, ma approfondendo un attimo le cose non lo è per nulla.

Intanto il neonato ad hoc non ha dato nessun consenso per essere al mondo in funzione del fratello e  non risulta il frutto diretto di un amore dei genitori verso una nuova nascita. Il nuovo nato certamente verrà a sapere tutto ciò e qualcuno dovrà spiegargli tutto, nella speranza che accetti la gestione della sua nascita, che indubbiamente gli creerà difficoltà psicologiche.

Il tutto è avvenuto utilizzando le tecniche di IVF (in vitro fertilisation), poi lo scrinning genetico su di una o due cellule prelevata ad ogni embrione al fine non solo che ci fosse un nato esente da beta talessemia, ma che tale nato avesse i geni delle informazioni per i prodotti HLA (human leukocyte antigen) compatibili con il fratello, il che vuol dire che sono stati eliminati non solo gli embrioni portatori della malattia, ma anche gli embrioni sani (circa uno su cinque, il 19% degli embrioni sani ha l'HLA compatibile con un fratello in modo che il rigetto sia gestibile, se non nullo).

La beta talassemia o talassemia mediterranea è trasmissibile geneticamente, ma non tutti i nati ne possono essere colpiti. Chi ne è colpito (in Italia si hanno 6000 casi)  non si trova in uno stato di malattia mortale, ma deve tuttavia sottoporsi a trasfusioni ogni 15 o 30 giorni.

Esiste ormai una strada percorribile come hanno dimostrato ricercatori dell'Istituto S. Raffaele di Milano che utilizza cellule staminali emopoietiche del paziente. Tali cellule staminali vengono sanate geneticamente mediante un vettore virale (un semplice virus reso inattivo) che contiene una copia sana del gene della beta emoglobina. Le cellule trattate vengono poi iniettate nel midollo osseo e cominciano a produrre globuli rossi sani. Basta che il numero delle cellule sanate sia il 30/50% per avere il numero di globuli sani necessari. Tale tecnica è stata convalidata su cavie animali fin da 2000.

Dunque non mancano orizzonti promettenti a brevissimo termine, che vanno finanziati adeguatamente. Quanto è stato fatto in Spagna non è affatto un capolavoro di umanità.

 

Inserito il 16 Marzo 2009

 

Lettera denuncia - Un mese dopo parlano le suore che accudivano Eluana

Nei protocolli della morte mettete una carezza

 
 

(Il Resto Del Carlino - 8 Marzo 2009)

 

Dopo la morte di Eluana è stato chiesto un rispettoso silenzio: abbiamo sperato che questo potesse dare a ciascuno la possibilità di riflettere senza condizionamenti massmediatici. Purtroppo il silenzio è stato continuamente, e a volte brutalmente, infranto per dire delle falsità sullo stato di Eluana e per accusare di violenza e di disumanità chi per anni l'ha curata con l'affetto tenero e con la doverosa professionalità e si è reso disponibile a continuare a farlo nel silenzio e con semplicità.

Qualcuno potrà dire che l'amore dato a una persona ritenuta «già morta» sia un inutile spreco. Sì, è inutile spreco come lo è stato, agli occhi di Giuda il traditore, il profumo prezioso con cui una donna cosparse i piedi di Gesù prima della sua condanna alla crocifissione. Gesù di fronte a questo gesto invece ha detto: “Lasciatela fare”. Noi suore non siamo abituate a fare tante disquisizioni: siamo state chiamate per vocazione a continuare la missione di versare olio sulle sofferenze dei fratelli, come ha fatto e insegnato Gesù durante tutta la sua vita. Nel Vangelo infatti è scritto che attraversava città e villaggi curando ogni infermità del popolo e non ha mai detto a qualcuno “la tua vita non è degna di essere vissuta” oppure «lasciatela morire», anzi, ha persino risuscitato i morti. Forti di queste convinzioni i cristiani dovrebbero invadere la società di solidarietà per condividere situazioni simili a quelle della famiglia di Eluana, e questo dovrebbe essere visto come cosa buona. Si fa strada invece nell'opinione pubblica il capovolgimento dei valori e la falsità che presenta come “violenza disumana” il prendersi cura delle persone più disagiate mentre chiama “eroi della libertà” coloro che assistono una persona umana per condurla alla morte di fame, di sete e di solitudine, senza un minimo senso di pietà.

Da parte nostra continueremo a prenderci cura delle persone in condizioni di grave difficoltà che la società non ritiene sia utile mantenere invita. Noi Suore Misericordine vogliamo sperare che nel protocollo della morte di Eluana sia stata prevista anche qualche carezza.

 

Madre Annalisa Nava, madre generale della Congregazione delle Suore Misericordine di San Gerardo.

 

Inserito il 12 Marzo 2009

 

 

Intervento su Teleradio padre Pio sul digiuno quaresimale: giovedì 26 febbraio, ore 19,00

 
 

Il rapporto tra san Francesco e il digiuno è un tema da riconsiderare con molta attenzione, perché scorrendo le Fonti Francescane si legge che Francesco faceva ben quattro Quaresime.

Non bisogna pensare però che Francesco le facesse sempre tutte, ma tre le faceva di sicuro: quindi sono 120 giorni di Quaresima che faceva in un anno. Le faceva non soltanto per l'aspetto ascetico del digiuno ma, innanzitutto, per essere omogeneo a Cristo che stette per quaranta giorni nel deserto. La Quaresima per Francesco era anche “deserto” perché promotrice di silenzio, tanto necessario al raccoglimento, all’intimità con Dio. Così, vediamo Francesco che vive una Quaresima sul lago Trasimeno, portando con sé pochi pani; poi sul posto si costruì una capannuccia e vi rimase per quaranta giorni, fintanto che non andarono a prenderlo.

Egli, come ho detto, faceva quattro Quaresime “fuori programma”: viveva anche quella “canonica” dall'imposizione delle Ceneri fino alla Pasqua, ma anche altre. Una a partire dalla festa dell’Epifania, ricordando l’immersione di Gesù nelle acque del Giordano. Un’altra Quaresima la faceva in onore di s. Michele, e poi ne faceva un’altra, a partire dalla festa dei santi Pietro e Paolo.

Ai suoi frati Francesco ne prescriveva tre. La relazione che c’è tra Francesco e la Quaresima è una relazione molto profonda e ci aiuta a percorrere la Quaresima che ci sta dinanzi in maniera vera e coerente. Così, non soltanto bisogna pensare al digiuno, cioè a qualche ristrettezza nei cibi, ma anche bisogna cercare il silenzio, il raccoglimento, il deserto.

Quando si parla di Quaresima subito si pensa al digiuno; la mentalità comune si concentra su questo. Certo, il digiuno è importante, anche Gesù nel Vangelo ce lo ha presentato: “Quando c’è lo sposo gli invitati non possono digiunare, ma quando sarà loro tolto lo sposo allora digiuneranno”. Ma ,ecco, quando sarà loro tolto lo sposo ci sarà un altro banchetto, il banchetto eucaristico. Il digiuno viene colmato da un banchetto nuovo, da una tavola nuova, speciale, che è la tavola del Signore dove il cibo è il Corpo e il Sangue del Signore. Ne segue che il digiuno quaresimale è un digiuno fatto per dare maggior desiderio di quella tavola imbandita con il Corpo e Sangue del Signore. Digiuno ed Eucaristia sono due fatti estremamente connessi, estremamente correlativi. Il digiuno crea “la fame” per la tavola del Signore; crea il desiderio del Signore, il desiderio di essere nutriti del Corpo del Signore. Le componenti quaresimali del digiuno, del silenzio, della penitenza erano tutte centrate in Francesco nell’Eucaristia. Il cammino quaresimale potremmo definirlo un cammino di intensa spiritualità eucaristica. Il digiuno fa risaltare la presenza sull’altare di un cibo celeste, di un cibo divino.

San Francesco era povero, aveva la vocazione ad essere povero secondo il Vangelo, e per lui il digiuno era anche condivisione della condizione dei poveri. Questo è un aspetto molto importante che noi dovremmo tenere presente; noi che viviamo in una società opulenta, non dobbiamo dimenticarci che ci sono tante persone che soffrono la fame. Francesco se fosse vissuto oggi non si sarebbe rapportato solo con i poveri dell'occidente, ma anche con i poveri di tutto il mondo. Francesco non avrebbe trascurato di pensare a quei tanti fratelli indigenti. La Quaresima per Francesco era anche solidarietà con i più poveri.

Un'altra nota aveva la Quaresima per Francesco, ed ovviamente per la Chiesa, ed è quella della penitenza come cammino di purificazione personale, ma anche di espiazione per i peccati dei peccatori che non vogliono fare penitenza.

L'Ordine di Francesco ebbe all'inizio il nome di “Ordine della penitenza”. Era un grande impulso al rinnovamento della Chiesa. Non dimentichiamo la condizione agiata di tanti monasteri del tempo di Francesco, con tanti possedimenti; non dimentichiamo il feudatario-vescovo. Francesco prese in mano il Vangelo e disse: “No! Noi dobbiamo fare penitenza”.

Si chiamavano frati della penitenza, Ordine della penitenza, e questo è ancora valido oggi: dovremmo ricordarci di più del messaggio della Madonna di Lourdes “Penitenza, penitenza, penitenza”.

Padre Pio da Pietrelcina, poi, è stato un araldo della penitenza.

Il saio di Francesco era color bigello (della cenere) probabilmente perché Francesco non trascurava nessun aspetto penitenziale: vestiti di sacco sono i due testimoni dell’Apocalisse. Durante la Quaresima si cospargeva il capo e gli abiti di cenere. Chi va ad Assisi, nella chiesa delle Clarisse, può vedere in una bacheca l’abito di san Francesco, ed è effettivamente color bigello. Non voglio sapere se era la stoffa più povera che aveva sotto mano in quel momento, ma sicuramente il color bigello era quello più unito all’atteggiamento penitenziale del cospargersi di cenere, che allora si praticava. Una volta Francesco entrò nel parlatorio del monastero di san Damiano, dalle suore, e si cosparse la testa di cenere, per poi circondarsi di un cerchio di cenere a significazione del suo vincolarsi a rimanere sempre nell’umiltà e nella penitenza: la cenere richiama la polvere.

Nel Medioevo, qualche volta, nella confessione, si dava come penitenza, non le cinque Ave Maria che diamo oggi, ma il dover mangiare per una settimana la minestra con dentro un cucchiaio di cenere, Ma, attenzione, tutto ciò veniva vissuto con gioia, con letizia. I frati non portavano quel saio color bigello con mestizia, ma con quella gioia che proviene dall'unione con il Signore, secondo quanto lui ha promesso e trasmesso: “Io voglio che la mia gioia sia in voi”.

L’alleggerimento del peso della carne si tramuta sempre in letizia che viene dall’unità con il Signore.

Il digiuno previsto oggi dalla Chiesa consiste in un solo pasto completo, non è un digiuno integrale, poi ci sono digiuni che vanno sottoposti al proprio direttore spirituale, forse anche al medico.

Cosa facciamo noi concretamente nella fraternità di Rimini?

Ci proponiamo, innanzitutto, una maggiore disponibilità al sorriso, all’accoglienza; una maggiore intensità di preghiera. Poi abbiamo una maggiore cura per i bisognosi, visto che abbiamo anche una mensa per i poveri, dove tutte le sere diamo da mangiare a circa 160 persone. Sono i poveri della città. Sappiamo che i poveri prima del cibo vogliono un trattamento umano. Non cercano un piatto pieno, nudo di stima e affetto. Il piatto che diamo deve essere dato con grande attenzione alla loro dignità di persone. Quel piatto va dato loro con il sorriso, senza farglielo pesare. I poveri della terra non sono tali per colpa loro o per colpa di Dio che non li avrebbe beneficati, sono tali per l'avarizia dei potenti.

Questo è il proponimento che abbiamo fatto: centrare tutto fortemente sulla carità, sul rapporto reciproco tra di noi, sulla comprensione dell’altro, nell’ascesi per cui non è concesso mai un solo sbuffo impaziente. Certo siamo uomini, con tutte le nostre mancanze, imperfezioni che, per quanto possiamo rimuovere, attenuare, rimangono. Sempre avremo delle zone di imperfezione, ma sempre dobbiamo tendere alla perfezione, senza mai desistere.

Padre Pio, dicevo prima, è un grande invito alla penitenza. Padre Pio non può essere collocato dentro il tratto storico di un determinato momento. Non lo possiamo pensare superato dai tempi, perché compiremmo un crimine interpretativo. I santi, proprio perché modellati sul Vangelo, rimangono sempre attuali.

C’è ancora qualche irriducibile che non rinnega più padre Pio, ma vuole relegarlo in un tempo passato; ma padre Pio non è relegabile al passato perché padre Pio è un presente che rimarrà sempre presente, perché ha vissuto il Vangelo nella sua integrità.

Il suo messaggio è un messaggio talmente forte, talmente evangelico che ne abbiamo bisogno assolutamente per rinnovarci, noi abbiamo bisogno della sua giovinezza.

Questo frate, questo uomo, ci ha fatto vedere quanto è importante la partecipazione alla Passione di Cristo; le stimmate, la sua Messa; tutta la sua persona portava e porta a Cristo Crocifisso, e contemporaneamente alla gioia del Cristo Risorto. Gioia, perché padre Pio non è stato assolutamente un uomo triste, pur  uomo di penitenza, uomo che ha sostenuto battaglie durissime, che ha digiunato, rinnegando se stesso, mai compiacendosi di sé. Ha sofferto tantissimo, padre Pio, anche di fronte alle lodi, e a un certo punto aveva imparato a farle scorrere su di sé, come acqua che scorre. Le lodi di questo mondo non lo interessavano perché cercava soltanto la lode che viene da Dio giusto giudice.

Il cammino quaresimale è un cammino di riconciliazione con Dio, con i fratelli, con se stessi e con il creato. Quest'ultimo aspetto della riconciliazione col creato, è presentato dal vangelo di Marco dove si dice che Gesù nel deserto stava con le bestie selvatiche: una nota di paradiso terreste.

E’ qualcosa di molto dolce la riconciliazione con Dio, perché Dio ci riconcilia a sé mediante la manifestazione salvifica dell'amore di Cristo. Tale riconciliazione è un evento estremamente profondo. Riconciliarci, vuol dire che c'è stata una rottura; la riconciliazione nasce per sanare una rottura, che dev’essere superata. È Dio, però che ha fatto e fa il primo passo. E' il Padre che ha inviato il Figlio quale riconciliatore, manifestando il suo amore per noi fino alla morte di croce.

Cristo con il suo amore ci ha vinto; ci ha portati a rivederci, a umiliarci, a chiedere perdono. Il suo amore non ammette spazi di incertezza; il suo amore è talmente forte, luminoso, vasto, profondo, alto, che non dà spazio alla minima possibilità di incertezza. Ti accorgi che stai sbagliando tutto, e che c’è uno che ha un progetto su di te che passa attraverso la garanzia del suo amore testimoniato con i fatti. Ti accorgi, così, che sei difforme da quello che dovresti essere, che sei difforme dalla parola del Signore.

Tornando al cammino penitenziale quaresimale va detto che la penitenza cristiana non distrugge la corporeità,  consapevole che il corpo è tempio dello Spirito Santo; per questo san Paolo ci dice di non profanare il corpo con il peccato. E' questa la visione corretta del corpo; ma è pur vero che questo corpo è pesante e va dominato.

Certo, padre Pio aveva una visione positiva del corpo come tempio dello Spirito Santo, ma pur lo mortificava.

Aveva però un carisma speciale nell'affrontare digiuni. Sì, perché padre Pio mangiava molto poco, pochi cucchiai di minestra, e molte volte addirittura non mangiava nulla e passava il suo cibo ai poveri presenti alla porta; ma, ecco, stranamente padre Pio non era emaciato, scavato, pelle e ossa. Padre Pio è sempre stato consapevole che questo corpo non dev’essere odiato, disprezzato, ma tuttavia aveva ben chiaro che dev’essere dominato, perché la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; le due cose si urtano a vicenda, tuttavia lo spirito, forte dello Spirito Santo, è in grado di sottomettere la parte terrena che è in noi e quindi ridurre il corpo al controllo della ragione. Il corpo non soffre della signoria dello spirito, anche se non la vorrebbe, perché diventa più libero di ricevere il riflesso dei benefici dati all'anima. Ecco, quando facciamo una bella Comunione, fatta bene, sentiamo subito pace nel cuore, vitalità d'amore nel cuore, e tale pace e vitalità è forza per sottomettere il corpo, ma è anche tono che si riversa nel corpo, che diventa più capace di essere docile all'anima.

Padre Pio viveva il digiuno come preparazione per partecipare ad una mensa che lo nutriva: la mensa eucaristica.

L’Eucaristia è l’alimento e il digiuno crea “la fame” dell’Eucaristia.

Il digiuno è in funzione del banchetto che ci sazia. Padre Pio ha sempre vissuto nel campo di azione dell’Eucaristia, che tanto più ti trova leggero, tanto più ti attrae.

Nell’Imitazione di Cristo si leggono queste luminose parole: “Se dominerai la gola ti sarà più facile dominare tutto il resto”, cioè si riuscirà a dominare la tendenza al giudizio, alla mormorazione, alla curiosità, alla sensualità.

Veramente si deve dire che Padre Pio ha congiunto digiuno ed Eucaristia in maniera mirabile. Il suo digiunare si traduceva in “fame” dell'Eucaristia.

 

Inserito il 3 Marzo 2009

 

 
Punti fermi sullo stato vegetativo, contro le confusioni giornalistiche
 
 

(Avvenire 19 Febbraio 2009)

 

Professor Paolo Maria Rossini, ordinario di Neurologia dell'Università “Campus Bio-Medico” di Roma e direttore del Centro Integrato della Ricerca:

“La prima cosa da puntualizzare - spiega Rossini -  riguarda proprio la difficoltà di fare diagnosi di stato vegetativo (Vs). E' per esempio noto, da uno studio inglese, che in un centro di alta specializzazione oltre il 40% delle diagnosi sullo stato vegetativo è risultato non corretto”. Richiamando l'attenzione sulla necessità di una diagnosi sempre più accurata, Rossini descrive la vaghezza dei confini dello stato vegetativo: “Come negli stati di minima coscienza (Mcs), anche nella condizione vegetativa si verificano delle oscillazioni nella stessa settimana, persino nella medesima giornata, addirittura nel trascorrere di poche ore, durante le quali il paziente può transitare per un po' nello stato di minima coscienza, per poi fluttuare in quello vegetativo”. E ancora: “Bisognerà capire fino a che punto funziona il cervello in stato vegetativo - esorta Rossini – perché è scientificamente provato, da studi recenti, che quei pazienti mantengono una certa forma di pre-coscienza”.

E' poi sbagliato pensare che tutti i pazienti in stato vegetativo debbano essere alimentati attraverso sondino, dice Rossini, ricordando che “esiste una percentuale del 50% circa dei casi che conserva la deglutizione, e tra questi circa la metà la mantiene efficace al punto da poter essere nutrito per vie naturali e per anni. Allo stato attuale delle conoscenze non sappiamo se c'è un linguaggio “altro” rispetto al nostro, che è fatto di segni riconoscibili. La rete del dolore è un circuito di centri nervosi che controlla anche la percezione del dolore - spiega Rossini -. Se nelle persone sane si attivano 10 centri nervosi, nelle persone in stato vegetativo se ne attivano 6, ossia pochi meno, quindi su quali basi scientifiche si arriva a dire che questi pazienti non provano nessun tipo di dolore?”.

 

Altre verità dall'autopsia di Eluana Englaro: La pelle era completamente intatta, il cervello aveva volume regolare (Eluana Englaro il 18 gennaio 1992 aveva avuto un incidente stradale che le aveva procurato una lesione alla corteccia cerebrale).

 

Inserito il 20 Febbraio 2009

 

“Deturpata? Era bella, sette giorni fa”

 
 

(Avvenire 11 Febbraio 2009)

 

Non è possibile che Beppino abbia detto questo”, mormorava ieri a Lecco suor Rosangela, dopo aver letto sul Corriere di una Eluana che pesava 35 chili e il cui volto era deturpato dalle piaghe. “Forse si riferiva a questi ultimi giorni, dall’arrivo a Udine, ma come può essere cambiata così?”, si chiedeva senza capire... Una settimana senza più cure né sollievi e quattro giorni senza cibo né acqua, sospesi per intero e all’improvviso, sono torture, è vero, ma possono bastare? “Da qui è andata via che era bella - taglia corto la suora - , del resto verranno pur fuori le cartelle cliniche, basterà andare a leggere l’ultimo bollettino di Defanti prima della partenza da Lecco. È scritta ogni cosa, qui in collaborazione con lui si seguiva un percorso ben preciso e dettagliato, risulterà tutto”. E le accuse di Beppino? Alza le spalle lasciando trasparire solo affetto.

È un uomo tutto da capire”. Ora che importanza può avere che Eluana avesse un aspetto salubre o malato, che fosse magra o in carne? Oggi davvero tutto questo sarebbe abissalmente lontano, persino grottesco. Se non fosse che quel corpo, anche ora che tace, continua a parlare, eccome se parla. E racconta anni di assistenza perfetta a tutti i livelli. O invece altrettanti anni di 'violenze subìte', a sentire chi vorrebbe una Eluana scarnificata, “dalla faccia che si era rinsecchita come il resto del corpo”, che “pesava meno di 40 chili”, le cui “braccia e gambe erano rattrappite”, con il viso tutto piagato da “quelle lacerazioni che ai vecchi vengono sul sedere o sulla schiena ma a lei anche in faccia”... Questo si leggeva infatti sul 'Corriere della Sera' di ieri a firma Marco Imarisio, questo il papà di Eluana gli riferiva 'ancora ieri mattina' ( cioè lunedì 9, giorno della morte), offrendo un quadro raccapricciante dello stato di sua figlia (che lui ha visto per l’ultima volta martedì 3, il giorno dopo l'arrivo a Udine).

Bisognerebbe solo tacere, adesso, ma simili dichiarazioni disorientano un’opinione pubblica che non sa più dove sta la verità e ha diritto di sapere: perché l’uccisione di Eluana non è (e non è mai stata) un fatto privato, e oggi sostenere che fosse in stato terminale, un lumicino che attendeva solo un soffio per spegnersi, suona come una gravissima e fuorviante deriva. L’ennesima. Difficile, peraltro, da sostenere: non solo lo stesso neurologo Carlo Alberto Defanti ancora l’altro ieri (lunedì 9), non prevedendo il crollo della paziente, insisteva sulle sue ottime condizioni fisiche (“al di là della lesione cerebrale è una donna sana, mai una malattia, mai un antibiotico, probabilmente resisterà più a lungo della media”), ma curiosamente lo stesso Corriere per due giorni consecutivi ha affidato a un’altra dei suoi inviati a Udine la descrizione dello stato di Eluana, di segno opposto a quella del collega: per altri tre o quattro giorni, scriveva infatti Grazia Maria Mottola sabato 7 febbraio, “il suo volto resterà ancora intatto, le guance piene, gli occhi allungati, le labbra rosa...”, certo, aggiungeva poi, non ha più l’ombretto azzurro sulle palpebre né le pose da modella delle foto di vent’anni fa, ma è “pur sempre bella anche oggi, soprattutto per la pelle, ancora bianca e distesa”. Solo tra qualche giorno, diceva dopo aver sentito Defanti e De Monte, “il viso comincerà ad affilarsi, e zigomi e naso spunteranno sempre più pronunciati. Ma nessuno permetterà che la sua pelle si raggrinzisca e perda il candore”.

Ancora lo stesso quotidiano e la stessa cronista, domenica 8 febbraio, dedica un intero articolo a descrivere un’Eluana che è ovviamente «l’immagine sbiadita della bruna stupenda» di un tempo, ma ha gli stessi lineamenti solo più delicati ed è ancora bella. La giornalista rivela di averla vista dal vivo nella stanza di Lecco più volte, anche a ottobre nel giorno in cui un’emorragia se la stava portando via. Anche in quelle condizioni “la pelle è chiara e distesa, gli occhi profondi che non si fermano mai”, ma la bocca “si apre e si chiude boccheggiando” per la morte che pare imminente. Invece la crisi passa e pochi giorni dopo “il viso è sempre lo stesso”, la vita riprende i suoi ritmi con “le passeggiate in carrozzella, la ginnastica tra le mani delle suore”. E, aggiungiamo noi, di quattro fisioterapisti che tutti i giorni si alternavano per tenere tonici i muscoli e sano il fisico. Girata continuamente nel letto antidecubito, Eluana non aveva una piaga e i suoi arti erano sodi grazie alla ginnastica passiva, quella che migliaia di altri pazienti in stato vegetativo purtroppo non ottengono, dati i costi di simili trattamenti. Allo stesso Defanti la sera dell’emorragia avevamo chiesto personalmente come Eluana potesse essere così florida e sana, senza una piaga, e il medico aveva attribuito senza esitazioni il merito “a queste suore che volontariamente la assistono con una competenza e abnegazione che io non ho mai visto altrove”.

E così stridono ancora di più le ultime dichiarazioni rilasciate ieri sera da Beppino al tg del Friuli: “Non perdono la mancanza di rispetto nei riguardi di Eluana e della mia famiglia tutti questi anni. Eluana ha subìto non un accanimento terapeutico, ma una violenza terapeutica: non voleva che nessuno le mettesse le mani addosso e loro lo hanno fatto continuamente per 17 anni”. Anche dinanzi a insinuazioni ingiuriose le suore chiedono solo silenzio e preghiera, e ancora ieri si preoccupavano per Beppino, l’uomo che hanno sempre rispettato al punto da essere state inflessibili guardiane di quella figlia diventata anche loro, al cui capezzale non accedeva nessuno - senza eccezioni - se non era accompagnato dallo stesso Englaro. Ieri per ultima alla ridda di voci si è aggiunta quella di Marinella Chirico, giornalista Rai, che domenica pomeriggio, quando Eluana era già priva di cibo e acqua da tre giorni, proprio da papà Beppino è stata fatta entrare nella stanza della figlia assieme al fratello Armando Englaro: “Mi ha chiesto di vederla perché critiche 'ferocissime e crudeli' mettevano in dubbio il suo stato reale”, spiega la collega, che là dentro 'scopre' che Eluana, dopo 17 anni di stato vegetativo, “è irriconoscibile rispetto alle foto” (di venti anni prima e di ragazza sana), che è “una donna completamente immobile”, che “gli infermieri sono costretti a girarla ogni due ore”, per evitare il decubito (come a Lecco si è fatto per 15 anni), che solo le orecchie “presentano lesioni” in quanto “unica parte del corpo non tutelabile nemmeno girandola”…
C’è da chiedersi come immaginava che fosse uno stato vegetativo (incontrare questi pazienti è sempre una delle esperienze più toccanti) e se avesse nella sua vita avvicinato già altri pazienti del genere (ma certo non curati come Eluana). A questo punto, però, di 'ferocissimo e crudele' c’è solo un terribile sospetto: se davvero una settimana nella casa di riposo di Udine è bastata, come dice la Chirico, a fare di Eluana un corpo la cui vista era “devastante”, che cosa le hanno fatto? Come si distrugge in sette giorni un equilibrio stabile da quindici anni? Per Eluana ormai non c’è più nulla da fare, ma a chi di dovere ora almeno l’obbligo di far emergere tutta la verità.

 

Inserito il 13 Febbraio 2009

 

Intanto arrivano i primi dati dall'autopsia. Eluana pesava 52,5 kg e non aveva nessuna piaga da decubito.

(Avvenire 14 Febbraio 2009)

 

Inserito il 16 Febbraio 2009

 

 

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